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xv. - Vènezia e il trippàjo 157

— ma lo scialle nero a gran frange, ricade dalle spalle a terra con una maestà di peplo. Guarda quella strega magra! Ha una testa dogale. Pàssano; e il suono lamentèvole del dialetto, rotto da gàrrule risa, da interiezioni, Maria Vèrgine! fa venire in mente uno stormire di ròndini. Le loro gonne sono ancora gonne àmpie, nere, all’antica, e le loro scarpette sono pòvere scarpette. Così è oggi come una volta. E i greci in gonnellino? e gli orientali in turbante? Non vi sono più. E dove è trasmigrato quel vècchio cantastòrie, tutto rughe, tutto grinze, che ripeteva con voce che pareva le onde del mare, la stòria della regina Cornaro, di Marcantònio Bragadìn? Deve èssere ben morto.

Vòglio andare da me uno a San Marco, e vedere se mi ricordo. Ecco, mi sono smarrito in questo dèdalo di calli. V’è un odorino..., ma non è puzzo: odor di àlighe dai canali verdi, di lumachini, di vecchi fòndaci: ma non è puzzo, È odore di Venezia. E nemmeno si può dire, sporcìzia: quel bucatino di bimbo, a festoncini, sospeso lassù, è grazioso. Èccomi in un campiello dove pare che l’orològio del tempo si sia fermato. Le case sem-