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il trionfo del marito di clodio 17

conoscesse l’italiano, la interrogherebbero per sapere se ciò è vero, o fino a qual punto, se riceve la paga alla fine del mese: non potendo sapere ciò, si accontentano di compassionare i piccini come fossero figli propri accarezzandoli quando li vedono.

Per mio conto sapevo che il patrimonio del marchese, vistosissimo un tempo, era oberato da ipoteche, pessimamente amministrato, tutto quel che si vuole, ma non giunto allo stato di liquidazione come quivi correva voce. La sola galleria conteneva dei valori inestimabili; due arazzi fiamminghi del cinquecento nel palazzo marchionale potevano sempre esser venduti per cento e più mila lire. C’era da sorridere a coteste dicerie. Confesso inoltre che l’animo mio repugnava di supporre in tanta abbiezione caduto l’ultimo discendente di una famiglia virtuosa ed illustre, e questa abbiezione ai piedi di quel paltoniere rosso di jankee milionario. Me ne sentivo pure offeso in non so quale sopravvivenza di dignità nazionale, e volevo non credervi. «Imbecille fin che si vuole, ma non colpevole!» E godevo che il dottore in cotesto convenisse con me. Egli ammetteva che il marito si trovasse in uno stato patologico di perfetto dominio della moglie. «Egli è un asceta, un martire che gode del suo martirio pur di essere il possessore di quella donna. E come un artista tutto sacrifica per la sua opera d’arte, come uno scienziato muore per la sua scoperta