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a EMILIO TREVES.

Gentilissimo signor Emilio, non è mia la colpa se vedo ancora la di lei imagine davanti a me; e conceda che io la chiami ancora così, signor Emilio, come del resto tutti la chiamavano nello Stabilimento; chè ella diceva che il titolo di commendatore le serviva soltanto per quando andava all’albergo.

Ella non può credere lo stupore che mi colse quel pomeriggio del 30 gennaio 1916, quando nel cortile della sua casa di via Brera, n. 21, vidi la piccola bara che racchiudeva il grande editore.

Era tutta coperta di viole.

Ella, nella vivacità del suo spirito, pure a ottantadue anni, tante cose disegnava per il domani; fuor che la morte. Ed essa è venuta! Ma può darsi anche che la morte sia una cosa che riguardi gli interessi privati della natura, non noi; ed è per questa supposizione — chi ne sa nulla? — che mi par di ragionare con lei, come se lei fosse ancora in vita. Ed ecco, veda che mi pare di sentire la sua parola che ripete: