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La bora 135


Mènego se lo prese e, così come era, se lo caricò su le spalle, e perchè quegli springava forte, Mènego strinse con una mano un piede, con l’altra mano attanagliò l’altro piede insieme con l’una e l’altra mano di lui.

Mènego si mosse col suo passo dondolante e sicuro.

— No buttarme nel canale che me nego!

L’uomo andava in silenzio.

Prese la via, non del canale, ma della terra.

Di mano in mano che si inoltrava verso terra, il fragore del mare cessava e la bora si sentiva meno.

Camminò per un’ora per la campagna. Intanto il giovane, riavutosi alquanto, spiegava fra il pianto, dall’alto, agli orecchi di Mènego, il perchè della sua mala ventura.

Mènego non rispondeva niente e andava.

Ad un tratto il giovanetto trasalì tutto: diè un guizzo enorme per iscappare, mandò un urlo di terrore.

Nella tenebra della notte aveva scorto qualcosa di più tenebroso: i cipressi del Camposanto. Le cime ondeggiavano, vive.

Mènego a quell’urlo si fermò alquanto: guardò, come se qualcosa di evanescente avesse dovuto farglisi incontro. Nulla! Allora riprese il cammino. Giunse al cancello dei morti.