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sotto la madonnina del duomo 103

superba vetrina, su un tappeto di capelvenere, giacevano come stanche di essere nate anzi tempo e senza sole, pallide rose e ciocche di gran viole. Dai verdi steli, invece, le orchidee spingevano i loro mostruosi e meravigliosi petali, come gole aperte di colubri; e le arzalee fiorivano in vaghe ombrelle.

Spinse la porta che era pur essa tutto un gran cristallo pesante.

C’era dentro il silenzioso e suntuoso negozio una dama coi capelli di rame e un mantello scarlatto puro fino ai piedi: un uomo con parvenza di gentiluomo e la commessa si adoperavano a fermar sul seno di colei, largo e sciolto, come si usa, ora, un gran mazzo di viole. Ella rideva con un’impudicizia superba e sicura da un bel volto che pareva lavorato a cesello nel pallido bronzo.

— Buon giorno! — disse la commessa volgendo il viso intento nell’opra, al nuovo venuto.

E Ambrogino disse che facesse pure che avea tempo, e si sedette. Quei due risero: si vagheggiarono a due grandi specchiere. Ella, la bella donna, volle porre alla sua volta un garofano bianco e magnifico all’occhiello di lui. E Ambrogino pensava che quando fosse stato consigliere avrebbe posto delle tasse da levar la pelle alle cose di lusso. Oh, in questo egli era socialista! Finalmente quei due adoratori della reciproca loro vanità se ne andarono.

— Io vorrei, — disse allora Ambrogino, — una corona di fiori per un povero bambino che è morto: mica molto grande e da non spendere tanto.

La giovane commessa disse che andava benissimo; ma quando espose il prezzo, ad Ambrogino parve che andasse malissimo.

— Cinquanta lire una coroncina per un piccolo bambino?

E la commessa spiegò che i fiori venivano tutti dalla riviera e che adesso coi teatri c’era un gran da fare.