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— Sì, signora contessa — rispose il servo che passava per caso, ma con un’intonazione monotona di voce che dava a vedere chiaramente essere quello il solito modo di rispondere sempre affermativamente al vaniloquio di mia madre.

Così passarono i giorni del santo Natale, le ore sacre alle famiglie fiorenti, io nella mia casa che cadeva, nella mia famiglia che moriva mentre la neve addormentava tutto all’intorno nel suo letargo gelido e bianco.

Venne il giorno della partenza; ed io non cercai di ritardarlo: quella casa grande, con tutti quelli stanzoni freddi, intorno tutta neve e tutto silenzio, e mia madre che mi ragionava con quell’enfasi di inspirata e poi, quando era sola, la scorgevo piangere, e quel servo curvo, triste, silenzioso: tutto, io dico, mi era entrato nell’animo con lo sgomento di cose morte. Mia madre voleva che partissi, e mi ricordo che non feci alcuna opposizione.

La solita berlina mi ricondusse alla stazione.

Il nero palazzo che rinchiudeva mia madre si disegnò per l’ultima volta sull’alto del colle: i cipressi si profilarono per lungo tratto di via