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Aquilino era oramai entrato in quella beata costellazione dello zodìaco della sua esistenza, in cui davanti agli occhi meravigliati appaiono figure con l’aurèola d’oro in testa, come gli àngioli che i pittori di una volta dipingevano. Erano teste chiomate di giovanette. Oh, quante! Oh, come belle! Con gli occhioni pietosi o sorridenti su di lui. Oh, come pure! perchè, dopo la testa chiomata, non appariva allora che un manto che ventilava, come appunto negli àngioli degli antichi pittori. Spesso la stanza era piena di queste testoline.
Provava una dolcezza di sogno; e tutt’al più — ogni tanto — qualche fremito strano nelle maschili membra; del quale fremito non trovava allora la relazione con tutti quegli àngioli così puri; e insieme col fremito, una gran distrazione. E bisognava proprio che fosse un bravo figliuolo per non abbandonare interamente i suoi libri di latino, di greco, di matematica, che erano proprio niente in confronto degli àngioli.