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— Bravo e mi piace — si udì allora una voce nel silenzio dell’uditorio.
Quel bravo e quel mi piace appartenevano al poeta Emme. Aquilino si volse. Il poeta Emme, ritto, nell’ampio ondeggiante sottano nero, detto or stiffelius, or financière, or prefettizia, sorgeva dietro alle sue spalle. Pareva dire dal ghigno del volto e dalla caramella nell’orbita: «Si batte bene, il giovanotto».
«Caro monòcolo, caro poeta — disse in suo cuore Aquilino — grazie. Ecco i poeti utili a qualche cosa».
— Ma mi faccia il piacere — disse il senatore al poeta Emme, — che lei contraddice per semplice sport —; e si allontanò con le spalle, per un angolo di quarantacinque gradi da Aquilino. — Lei sa meglio di me, caro poeta, che le fandonie metafisiche di quel signore non hanno più importanza se non come stìmolo del pensiero. È l’uomo che crea il fatto, e col fatto crea la verità, e perciò l’uomo è Dio.
— Ma una simile opinione, signor senatore — disse forte Aquilino — fu già annunciata duemilacinquecento anni fa; e poi fu ritenuta fandonia, ed oggi ritorna verità. Sia pure! Ma può anche col tempo ritornare allo stato di fandonia.