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il romanzo della guerra | 129 |
glielmone! Guglielmone, ecco! diceva tutto. Impossibile però era per noi prenderlo sul serio! Quei discorsi imprudenti che, subito, un qualche gravissimo personaggio della Dieta germanica si affrettava a mettere in sordina, quel Dio terribile in capo linea di tutte le falangi delle sue concioni militari, era qualcosa che faceva sorridere la nostra borghesia: la nostra democrazia mai avrebbe tollerato un simile principe. Ci voleva tutta la sancta simplicitas dei Germani! Ammirava egli, il Kaiser, i nostri diroccati castelli imperiali, ricordo degli Ottoni, degli Hohenstaufen? Ma noi, potendo glieli avremmo ben spediti tutti per pacco postale in Germania!
«Badate però — dicevano molti — che sotto quella teatralità si nasconde un omarino che sa lavorare molto bene gli affari del suo paese».
Questo personaggio, ora, improvvisamente, è balzato dal palco scenico nella più tragica realtà. La rocca forte della social-democrazia non l’ha abbattuta, ma più semplicemente: su di essa ha inalberato, piantato il gonfalone imperiale con lo stemma del Santo augello dantesco. Tutti ne sono impensieriti. Egli è diventato, d’improvviso, Attila, Alarico. Ha deposto la spada d’argento di Lohengrin: ha brandito il martello del dio Thor, ha detto: Picchiate sodo! Tutti ne sono impensieriti! V’è chi pensa al «gran seggio» dantesco.