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senza gradi inferiori. Vi disinteressate della Patria. Il vostro posto sarà quello che toccò ai compagni di sventura, ai triestini, ai trentini, agli istriani, ai dalmati, nei reggimenti offerti allo sterminio delle lance cosacche e delle potenti artiglierie degli eserciti dello czar».

Questi signori vogliono la guerra. Ma dopo aver seminato per anni ed anni il campo a patate, non è ingenuo pretendere che nascano rose, querce ed allori?

V’è in Italia — come sempre v’è stata, ed è la sua vera forza di Grande Nazione — una diffusa aristocrazia intellettuale, formata di solitari, di ribelli, di studiosi per lo studio — i quali non coincidono con gli studiosi delle accademie. Questa aristocrazia in eroici brandelli pur vuole la guerra. V’è chi ripete le parole del Cavour nel Parlamento subalpino, prima della spedizione in Crimea: La neutralità in questo momento vuol dire rinuncia alle aspirazioni avvenire.

Eppure l'Avanti! ha ragione. Chi vuole la guerra? Il così detto proletariato, no: la borghesia trafficatrice, il piccolo bottegaio, no: la gente d’ordine, di chiesa, no. Esiste in Italia un’aristocrazia dei natali, di origine nazionale e guerriera?

V’è inoltre fra noi una diffusa classe, e molto rispettabile — universitari, tecnici, uomini d’ordine — che vede nella germanizzazione del mondo una specie di necessità e di fatalità a cui china il capo docil-