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il romanzo della guerra | 111 |
era, rintronò un colpo. Non il fabbro, ma il contadino. I bimbi del contadino, fra cui Titì, raccoglievano allegramente rondini morte, rondini ferite.
— Ma cosa c’è da mangiare qui?
— Quando sono un mucchio — mi risponde — qualcosa si pilucca!
La rondine ferita fra le mani di Titì: testolina tonda tonda, qualcosa di puro, di aereo, zampine lievemente rosee, intatte, che mai non toccarono l’infame terra. Non ci sono più le rondini. Hanno ripreso tutte il loro volo.
— La rondine ferita, Titì, non mangerà pane!
Si trascina in un angolo oscuro per morire. Le altre già volano verso l’oriente.
La sera è tetra. All’osteria, il fabbro, davanti al suo litro, mi dice che se gli avessi lasciato sparare, lui ora avrebbe la cena. Ora ha bevuto, beve e non ascolta obbiezioni: «l’uomo — dice — ha diritto su tutti, uccide tutti: necessità non ha legge!» Sì, ha detto così, il fabbro. Ed ha aggiunto quasi con un certo disprezzo: «E poi cos’è tutta questa compassione? Non rinasce forse tutto? Uomini, grano, insalata, fagioli, uccelli, tutti rinascono! Ed io intanto, per cagion sua, sono senza cena!»
Che cosa rispondere? Rispondere con le parole di San Francesco? Chi le intende più nella ferrea età nostra?