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110 | il romanzo della guerra |
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21 Settembre. Lunedì. Equinozio di autunno. La stagione si è voltata: pioggia, vento, grande umidore, freddo; il mare in burrasca. Le nubi cavalcano sul mare. Il grosso fabbro, mio vicino e claudicante un po’ come Vulcano, esce dal suo antro con lo schioppaccio in mano e mi chiede licenza di sparare attorno la mia casa.
— Perchè?
— Ma non vede? (Si vedeva da lontano: tutte rondini, rondini oltremarine, sbattute forse dal vento, dalla tempesta, che si erano abbattute lì, sulla mia casa).
Il fabbro assicurò che con un colpo ne avrebbe fatte cadere cento. Lo pregai di desistere col pretesto delle donne. Se ne ebbe a male. («Ma come? vengono dal mare, per un momento domandano ospitalità alla tua casa e tu le fai uccidere?»).
Il fabbro è uomo di martello ed anche di qualche lettera, ma il mio ragionamento andava al di là della letteratura. Lo tenni per me.
Mi accostai alla casa: qualche centinaio di rondini, l’una presso dell’altra, fitte fitte, rigavano di nero e di bianco il cornicione, sotto la gronda scrosciante: tutte le mensole, tutti gli scuri, ogni sporgenza aveva quel vivo ornamento. Ed ecco dal lato opposto ove io