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— Eppure pesa così poco, pesa: magari pesasse di più — disse la madre.

Il babbo sollevò la bambina sua al terzo piano: cioè a cavalluccio sopra le spalle.

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Il babbo e la mamma erano assai giovani: lei una donna scialba, delicata, lunga, troppo lunga. Doveva essere stata vezzosissima pochi anni prima: ma la maternità intensa aveva fatto quasi repentinamente sfiorire la sua giovinezza; aveva deformata la sua persona. Le mani erano lunghe, trasparenti: le orecchie, il naso mostravano le cartilagini. Lui, sì, era un bruno, aitante, esuberante, forte maschio. Pareva che la sua giovinezza fosse ancora sorpresa del laccio ineffabilmente tenue e infrangibile del matrimonio, rappresentato da quella mimma esile come la mamma, da quella sposa patita. Eleganti erano l’uno e l’altra: ma di diversa eleganza: in lui era l’eleganza che cerca il piacere, in lei l’eleganza che non va oltre il decoro e la nettezza.

Dunque la sollevò, la sua mimma, sulle spalle, al terzo piano.

Pimpala, Imma! — fece la bimba spaurita.

— Cos’ha, adesso, con questo pimpala? — chiese lui alla moglie.

Pimpala — spiegò ancora la moglie con una sua voce di rassegnazione — vuol dire che l’Irma cade, che lei cade.