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zampe aduste come due ferri da calza; immobile, con la testa piatta ritirata fra le penne. Immobile come una mummia, supremamente indifferente alle mie ispezioni.
— Dico a lei, signor falco, ha inteso? le ho detto che lei è un piccolo, anzi ridicolo re! — e siccome quegli pareva non tener conto alcuno delle mie parole, tanto mi accostai col dito che lo toccai. Non lo avessi mai fatto! Quel re disprezzava le parole, ma non ammetteva scherzi di mano. Fulminee vidi aprirsi due alacce smisurate che pareva impossibile dovessero star rinchiuse in quel piccolo corpo, e in pari tempo mi ritrassi con la mano ferita; il dosso della mano portava l’impronta di cinque scalfitture, dove il sangue segnò cinque tracce di avvertimento. Come ebbi a lungo contemplata la mia ferita, mi riaccostai al falco, ma con molta prudenza, e lo vidi con regale solennità immobile come prima: solo l’ala rientrava come da per sè quasi serpe che rimbuca, e quattro lunghi e sottili aghi adunchi si ritraevano nei loro alveoli.
I suoi occhietti gialli, tondi, si movevano solo essi, e seguivano ogni mio gesto, come l’immagine nello specchio segue chi vi si affaccia, e col muover delle pupille si moveva un becco breve ma uncinato, di cui prima non mi era accorto, e dava alla fisionomia un aspetto grifagno.
Compresi allora come il piccolo animale, uguale nell’aspetto agli altri uccelli, ne fosse diverso per