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talvolta degno»: indi dirotto pianto, ma di rabbia.

— Finotti a far che? a scriver la lettera?

— No, a dirmi come si doveva fare la scusa. La fanno tutti, mica io soltanto! Il direttore l’ha su con me, e mi castiga solamente me — così rispose Giacomino.

— Va bene: lei vada intanto nella sua stanza.

Giacomino non domandava di meglio e si rifugiò nella sua stanza dove tutto serbava traccia delle sue imprese: la tappezzeria stracciata per ornare il palazzo della regina nel teatrino dei burattini: le sedie adattate a biciclette e ad automobile: il lume meccanicamente contorto per costituire il fanale della detta automobile: le quali cose insieme a molte altre, se davano alla stanza un disordinatissimo aspetto, provavano le disposizioni congenite del giovanetto alla meccanica.

Ma quel triste vespero Giacomino entrò assai turbato nella sua stanza: il gatto che lo vide — al rumor della porta aveva levato la pupilla dal suo vigile sonno — come saetta fuggì: negli esperimenti meccanici di Giacomino, o nelle rappresentazioni dei burattini, egli — onesto micio — era forzato a fare delle parti repugnanti alla sua indole tranquilla.

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Proprio in quell’ora il signor cav. Antonio tornava a casa.