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Lo spirto di quel vano amante, e stolto
     Quando fu giunto à l’onde d’Acheronte,
     In quel medesmo error trovossi involto,
     E rimirossi in quel pallido fonte.
     Il petto si batter, graffiarsi il volto,
     E le chiome stracciar sparse, et inconte
     Le Naiade di lui meste sorelle,
     E l’Amadriade, e l’altre Ninfe belle.

Ecco con lor il suo strider confonde,
     E lascia solo udir l’ultime note,
     Ma graffiarsi, e stracciar le chiome bionde
     (Non havendo più il corpo) ella non puote,
     Ma ben finge quel suono, e gli risponde,
     Che fan, se palma à palma si percote.
     E s’una dice, ahi quel bel lume è spento,
     Ella il ridice, e narra il suo tormento.

Già preparata havean la pira, e ’l foco
     Per far le sacre essequie al corpo estinto,
     Ma non trovar cadavero in quel loco,
     Dove l’uccise il suo bel viso finto.
     Fatto era il corpo del color del croco,
     Un fior da bianche foglie intorno cinto.
     E sì leggiadro, e nobile è quel fiore.
     Che parte anchor ritien del suo splendore.

La fama di Tiresia allhor ben crebbe,
     E n’hebbe tosto tutto il mondo aviso,
     Come il saggio pronostico effetto hebbe,
     C’havea già fatto al figlio di Cefiso.
     Il caso in vero à tutto ’l mondo increbbe
     De la spietata sorte di Narciso,
     E ben, ch’altero ei non stimasse alcuno,
     Pur tal bellezza à pietà mosse ogn’uno.

Tal credito la morte al Cieco diede
     Di chi de l’ombra acceso havea Cupido,
     Che tutto il mondo in lui prese tal fede,
     Ch’egli havea, più che mai, concorso, e grido.
     Fra tutti è Penteo sol, che non gli crede
     Sprezzator de gli Dei, nemico, infido,
     Nipote al primo Imperator di Thebe,
     Che ridea del concorso de la plebe.

E seguitando il suo costume, e rito,
     Disse sprezzando il profetar del vecchio,
     Ben’ è ciascun di voi del senno uscito
À chi perduti ha gli occhi dando orecchio.
     Quel, cui supplisce la mente, e l’udito
     In quel, che manca l’uno, e l’altro specchio,
     Pronosticando le future cose,
     Contra Penteo infedel così rispose.

Felice te, se quando un tuo cugino
     À Thebe torni, havrai perduti gli occhi,
     Sì, che non vegga il suo culto divino,
     E ’l tuo tristo infortunio in te non scocchi.
     Allhor saprai, s’io son buono indovino,
     Ne terrai questi augurij vani, e sciocchi,
     Allhor per non veder quel divin Nume
     Ti saria meglio haver perduto il lume.

Che non volendo adorar lui nel tempio,
     Sì come certo io so, che non vorrai,
     Del sangue tuo per dare à gli altri essempio,
     Citero, il nobil monte infetterai.
     E con cor verso te sdegnato, et empio,
     Tua madre, e le tue zie correr vedrai.
     E ti dorrai con tua gran doglia, e pianto,
     Ch’essendo io cieco habbia veduto tanto.

Mentre ha de l’altre cose anchora in petto
     Da dire intorno à questo il sacerdote,
     Penteo superbo il turba; ma l’effetto,
     Che ne dovea seguir, turbar non puote.
     Che già l’eterno giovenil aspetto
     Di Bacco torna à le contrade ignote,
     Ignote à lui, che fu menato altrove
     Poi che due volte il vide nascer Giove.

Havea Tiresia antiveduto il giorno,
     Ch’ivi lo Dio Theban dovea tornare,
     E detto à Thebe, et à le ville intorno,
     Ch’ à più poter s’havesse ad honorare.
     V’era concorso già tutto il contorno,
     Per voler la gran festa celebrare,
     Con varij suoni, insegne, e simulacri
     In honor di quei riti ignoti, e sacri.