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Non pria da se la Dea la nube sgombra,
     Che di forma senil tutta si veste.
     Fà bianco il crin, di color morto adombra
     Il volto, e crespe fa le guance meste.
     Al volto antico quell’aria, e quell’ombra,
     Quel velo al capo, al dosso quella veste
     Dà, ch’una vecchia balia hoggi usa, et have,
     Che tien del cor di Semele la chiave.

Sapea tutto il suo amor, tutto il suo intento
     Beroe Epidaura, di colei nutrice.
     Il tardo parlar suo, l’andar suo lento
     Ben finger sà di lei l’ imitatrice.
     Hor preso un vario, e gran ragionamento
     La Dea con quella giovane infelice,
     L’aggira con grand’arte, e al fin la move
À ragionar sopra l’amor di Giove.

Quanto è, che seco non fece soggiorno
     Le chiede, e come Amor per lei l’accenda.
     Ella risponde, e non passa mai giorno,
     Ch’egli per troppo ardor dal ciel non scenda.
     Pur dianzi se n’andò, fia di ritorno
     Diman, secondo ha detto, ch’ io l’attenda.
     E sempre, ch’egli viene, ha per costume
     Porsi meco à giacer sù queste piume.

Sospira dal profondo del suo petto
     La finta Dea, con non finto sospiro,
     Perche quel, che la giovane l’ha detto,
     Ha raddoppiato in lei l’odio, e ’l martiro.
     Bramo, che questo sia Giove in effetto,
     Ch’ogni dì teco adempie il suo desiro,
     Perch’altri (disse) con mentiti aspetti
     Macchiar più volte i più pudichi letti.

Non basta, ch’egli dica essere Dio,
     Se non dà del suo amor più certo pegno,
     Però se vuoi seguire il parlar mio,
     Vo, che sopra di ciò tu chieda un segno,
     Che come ei per dar loco al suo desio,
     À te discende dal celeste regno,
     Non venga, come suol, sotto human velo,
     Ma con la maestà, ch’ei stà nel cielo.

Venga nel suo decoro, e seco porte
     Le regie insegne, e ’l suo divin splendore,
     Come quand’egli và da la consorte,
     Per tor piacer del coniugale amore.
     Così fe, ch’ella dimandò la morte,
     Che non vedendo il simulato core
     De la finta nutrice, il dì, che venne
     Il mortal don da lui non cauto ottenne.

Senza scoprir qual dono, un don gli chiede,
     Ma vuol, che Giove pria prometta farlo.
     Egli, ch’altro non brama, altro non vede,
     Che piacere al suo amore, e contentarlo.
     Acciò ch’ella habbia indubitata fede,
     Che se ’l promette, egli è per osservarlo,
     Per quel fiume infernal promette, e giura,
     Ond’hanno gli alti Dei tanta paura.

La giovane mal cauta, e desiosa
     Di veder cose sopr’ humane, e nove,
     Non sapendo la morte essere ascosa
     Per lei nel don, ch’ella vorria da Giove,
     Gli dice humil la fronte, e vergognosa,
     Che come amor ver lei di nuovo il move,
     Ne la sua maestà celeste vegna
     Con l’arme innanzi, e con la regia insegna.

Nel modo, ch’à la sposa ei s’appresenta,
     Quando vuol seco il coniugal diletto.
     Di darle Giove in sù la voce tenta,
     Ma non può far, che ella non l’habbia detto.
     Gli preme, e duolsi, e più, che si rammenta
     Del giuramento stigio, ond’ è costretto
     Di compiacere in modo à desir sui,
     Che lui privi di lei, e lei di lui.

Giove da questo error cerca ritrarla,
     Mostrando il grave mal, ch’ indi s’aspetta:
     Ma tutto quel, che le suade, e parla,
     Rende la donna incauta più sospetta,
     E quanto più difficile nel farla
     Di ciò contenta il trova, più l’affretta,
     Che già suspition l’ ha presa, e vinta,
     Per quel, ch’udì da la nutrice finta.