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Goccia per tutto intorno la spelonca,
     E un chiaro fonte fa dal destro lato,
     Dove più basso à guisa d’una conca,
     La natura quel tufo havea cavato.
     Forma la goccia il tondo, e poi si tronca.
     Ne stillamento v’è continovato,
     Ma per più gocce sparse un ruscel cresce,
     Ch’empie quel vaso, e poi trabocca, e n’esce.

De l’antro il ciel, che natura compose
     Da le gocce, e dal gel diviso, e rotto
     V’ha mille varie forme, e capricciose,
     Ch’esser mostran d’artefice ben dotto.
     Tronchi ovati, e piramidi spugnose
     Vi pendon, ch’al gocciar fanno acquedotto.
     Compartimento ha tal, che lo scarpello
     Nol potria far più vago, ne piu bello.

Qui star solea la Dea silvana spesso
     Per fuggir il calor del mezzo giorno,
     Dove giunta hora, e le compagne appresso
     L’arco in man d’una diede, i dardi, e ’l corno.
     L’aureo sparso suo crin sottile, e spesso
     Raccoglie un’altra, e poi l’avolge intorno,
     Poi glie lo lega in capo in un bel modo
     Con un leggiadro, e maestrevol nodo.

Chi le slaccia i coturni, e scopre il piede,
     Altra le spoglia la succinta veste,
     E l’una à l’altra in ben servir non cede,
     Ma stanno pronte, vigilanti, e preste.
     Come la Dea spogliata esser si vede,
     Non vuol, ch’alcuna fuor vestita reste,
     E ignude se n’entrar (come à lei piacque)
     Ne le dolci, tranquille, e lucid’acque.

Mentre si stan le Ninfe ivi adunate,
     Senza sospetto alcun liete, e sicure,
     E si lavan le membra delicate
     Ne le dolci acque, cristalline, e pure,
     E con parole accorte, honeste, e grate
     Passan quell’hore sì noiose, e dure,
     Atteon, ch’ à diporto iva soletto,
     Venne à caso in quest’antro à dar di petto.

Si come piacque à l’empio suo destino,
     S’era à compagni l’infelice tolto,
     Ch’altri prono, altri in fianco, altri supino
     Veduto havea nel sonno esser sepolto.
     Entrò in quel bosco, che’l cipresso, e ’l pino,
     Et altri arbori fanno ombroso, e folto,
     Tanto, che ’l trasse il piacer, che n’havea,
     Dov’era ignuda la silvestre Dea.

Come son d’Atteon le Ninfe accorte,
     Ch’ in lor tien gli occhi stupidi, et intenti,
     E veggon, ch’egli le ha già ignude scorte,
     Con muti, e rotti gemiti, e lamenti
     Batton le mani, e ’l sen, non però forte,
     Per c’han vergogna; e misere, e dolenti
     Le parti ascondon, che natura asconde
     Dentro à le trasparenti, e limpide onde.

Confuse tutte cercan far coperchio,
     Ch’egli ignuda la Dea non vegga, e note,
     E le fan mormorando intorno un cerchio,
     E lei coprono, e lor più che si puote.
     Ma il capo lor sovrastà di soverchio,
     Ne può la Dea celar le rosse gote,
     Le gote più, che mai tinte, et accese,
     Per la troppa vergogna, che la prese.

Come si tinge una nube nel cielo,
     Che da l’averso Sol venga percossa,
     Come al tor del notturno ombroso velo
     La parte Oriental diventa rossa:
     Tal la sorella del signor di Delo
     Si tinge in viso, e da grand’ira mossa
     Si duol, ch’in man non ha gli strali, e l’arco,
     Per levarsi quel biasmo, e quello incarco.

Subito volta à lui la bassa fronte,
     E non havendo altre arme da valerse
     Prese con ambe man l’acque del fonte,
     E ’l miser con quell’acque ultrici asperse.
     Hor voglio, se potrai, che tu racconte,
     Come Diana ignuda si scoperse.
     Questo gli disse la sdegnata Dea,
     Che fu indicio al gran mal, c’haver dovea.