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Un caso strano al misero intervenne,
     Il maggior infortunio non fu mai,
     E di quanti parlar l’antiche penne,
     Tutti gli altri avanzò questo d’assai.
     Da lui Diana offesa un dì si tenne,
     Ma non l’offese, e tu Fortuna il sai,
     E se ben quel meschin Diana incolpa,
     Tu sai pur, che fu tua tutta la colpa.

Io scuso in parte la silvestre Dea,
     C’hebbe à pensar di tempo poco spatio
     De la pena, ch’à lui donar dovea,
     Che non havria sofferto sì gran stratio,
     Ch’ogni vil can, che l’ infelice havea,
     S’havesse à far de l’heril sangue satio.
     Ben saria stata di pietade ignuda,
     Se fosse stata in lei voglia sì cruda.

Questo infelice (ch’era Atteon detto)
     Soleva à caccia andar quasi ogni giorno,
     Ne si togliea talhor da tal diletto,
     Se ’l ciel pria non vedea di stelle adorno.
     Un dì, che’l bosco havea di sangue infetto
     Di belve senza fin, non fe soggiorno
     Fin che ’l sol s’attuffasse à star con Teti,
     Ma fe più tosto assai raccor le reti.

Già nel cielo era il Sol cresciuto tanto,
     Che discopriva il declinar del monte,
     E da l’occaso era discosto quanto
     Gli era lontano il contrario orizonte.
     Teneano l’ombre de le cose intanto
     Tutte al Settentrion volta la fronte,
     Quand’ei levò da quei cocenti ardori
     Gli affaticati cani, e i cacciatori.

Ben’è stato il diletto hoggi compito,
     Ben’hoggi havuto il fato habbiam secondo,
     Che veggio il sangue in favor nostro uscito,
     À tutto il bosco haver macchiato il fondo,
     Già fra Favonio, et Euro compartito
     Ha con ugual distantia Apollo il mondo,
     (Disse) e fia bene homai ritrarre i passi,
     E ricreare i corpi afflitti, e lassi.

Tosto i nodosi, e insanguinati lini
     Da i pali si disciolgano bicorni,
     Poscia ov’ han più grat’ ombra i faggi, e i pini
     Ciascun prenda riposo, e si soggiorni:
     Come di perle adorna, e di rubini
     La desiata Aurora à noi ritorni,
     E faccia à pien del novo giorno fede,
     Tenteremo altre caccie, et altre prede.

Ó sfortunato giovane, che fai ?
     Ch’al riposo de i can tanto riguardi?
     Perche quest’otio, e quiete lor dai?
     Perche possan seguirti più gagliardi?
     Ó misero infelice, perche stai?
     Che non cacci anchor hoggi insino al tardi?
     Se in questi boschi hai già spenta ogni fera,
     Che non cerchi altre caccie insino à sera?

Già desioso ogn’un de la quiete
     Fa quanto egli far dee per riposarsi,
     Chi sotto un faggio, e chi sotto un’ abete,
     Non lungi l’un da l’altro erano sparsi.
     Altri guarda la preda, altri la rete,
     I can si veggon rispirando starsi,
     Col penoso essalar, con lordo morso
     Mostran quanto hanno il di pugnato, e corso.

Vicino al loco, ove à prender riposo
     Gli afflitti caciator s’erano messi,
     V’era una valle amena, e un bosco ombroso
     Di molto antichi pini, e di cipressi,
     Dove era un’ antro assai remoto, e ascoso,
     Ignoto insino à paesani stessi,
     Sola il sapea la cacciatrice Dea,
     Ch’ivi il caldo del dì fuggir solea.

Detta Gargafia è quella nobil parte,
     Di cui tenea la Dea silvestre cura,
     Non è la grotta fabricata ad arte
     Ma ben l’arte imitato ha la natura.
     Un nativo arco quell’antro comparte,
     Ch’in mezzo è posto à le native mura,
     Tutta d’un fragil tufo è la caverna.
     La fronte, i lati, e anchor la volta interna.