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secondo. 28

Per dimostrar Mercurio in qualche parte
     L’animo verso Apollo amico e buono,
     Gli diè questo istrumento, e insieme l’arte
     Gl’insegnò, che suol far sì dolce il suono.
     Questa è la cetra, ch’à l’antiche carte
     Die sì sonoro, e dilettevol tuono.
     Rendè con questa Apollo esperte, et use
     (Onde sì dolce poi cantar) le Muse.

Deh suona Apollo la tua cetra, suona
     Mentre la Musa mia di te favella,
     Dia gratia à quel, ch’ella di te ragiona,
     La tua dolce armonia sonora, e bella,
     Sì ch’un fiume novello d’Elicona
     Tragga la nostra anchor nova favella.
     Deh rendi à noi sì le tue corde amiche
     Che possiamo imitar le carte antiche.

Febo un bastone havea di sua man fatto,
     Dov’eran due serpenti incatenati
     Con quattro, ò cinque groppi in un bell’atto
     Intorno à quel bastone aviticchiati.
     Ambi un cerchio facean, ma non à fatto
     Verso la testa ov’erano incurvati.
     E le teste guardavano à quel punto,
     Ch’un semicerchio, e l’altro havrebbe giunto.

Donollo à chi già Batto fe di pietra
     Lo sbandito dal Ciel novo pastore
     Non più per ricompensa de la cetra,
     Che, per mostrar l’interno del suo core.
     Cosi poi che perdon ciascuno impetra,
     E fede acquista al rinovato amore,
     Restando ogn’un del suo desio contento,
     Questi al ciel si tornò, quelli à l’armento.

Mentre il messo di Giove al cielo aspira
     Con l’ali, che i piè gli ornano, e le chiome,
     La prudente città passando mira,
     A cui Minerva diè l’oliva e ’l nome.
     Porge gli occhi per tutto, e vaga, e gira,
     E di tornare al ciel si scorda, come
     Vede l’alme contrade ornate, e belle
     Di mille vaghe, e nobili donzelle.

Era un festivo, et honorato giorno
     Consacrato à Minerva, e si facea
     Nel tempio suo più de l’usato adorno
     Un sacrificio à la pudica Dea.
     V’era concorsa ogni Vergine intorno,
     E di fiori, e di frutti ogniuna havea
     Un bel canestro in capo, per donare
     Quel con gran pompa al suo divino altare.

Nel ritornar, che fanno honeste, e altere,
     Felice è quel, che più bel luogo acquista.
     Già fan gli huomini à i lati due spalliere,
     Et esse in mezzo una superba lista.
     Un s’alza, e l’altro spinge à più potere,
     Che non vuol perder sì leggiadra vista.
     Quel, c’ha già l’amor suo visto, si parte,
     E corre per vederlo in altra parte.

Sì come splende sopra ogni altra stella
     Quella, ch’innanzi al giorno apparir suole,
     Come la Luna appar di lei più bella,
     E come d’ambe è più lucente il Sole;
     Così splendeva sopra ogni donzella,
     Fra tanta Virginal concorsa prole,
     Herse, la figlia Regia, il cui bel volto
     Ha già dal suo camin Mercurio tolto.

Lo Dio stupisce di sì bella, e vaga
     Donna, ch’in mezzo à tante altre risplende,
     E del bel viso suo tanto s’appaga,
     Che quel piacer, che può, con gli occhi prende;
     Pensa rapirla, e si raggira, e vaga,
     Ma il popol, che l’è intorno, gliel contende.
     Pensa di torla, e non s’arrischia, e teme,
     Stà in dubbio, e ruota, e l’intertien la speme.

Sì come quando in un’altar foresto
     Fan sacrificio i sacerdoti à Giove,
     Se il Nibio vede à l’hostia il core, e ’l resto,
     Onde solea spirar, ch’anchor si move,
     Più volte ruota intorno al cor funesto,
     E la speranza gir nol lascia altrove,
     Pur teme, onde nol prende, e via nol porta,
     Quei sacerdoti, che gli fan la scorta.