Guidala pure al regno alto, e giocondo,
Com’esce l’alma del suo albergo fuora.
Che ’l figlio havrà la Monarchia del mondo,
Ne dubitar, che invendicato muora.
Che come egli havrà in terra il maggior pondo,
E che vedrà l’occasione, e l’hora,
In parte ei condurrà l’armate squadre,
Che vendetta faran del morto padre.
Potran far fede e Modona, e Farsaglia,
E ’l campo Macedonico del vero,
Quanto ne l’arme, e nel giudicio vaglia
Questo, c’havrà del mondo il sommo impero
Che vinti fien per forza di battaglia,
E ’l faran gir de’ suoi trionfi altero.
E ’l mar Siculo anchor potrà dir come
Vincerà lui, c’havrà di Magno il nome.
Del grande Egitto l’inclita Regina
Fatta consorte al gran Duce Romano,
Havrà per quel, che ’l fato à lui destina,
Ne le sue nozze confidato in vano:
Che vedrà del suo imperio la ruina,
E venir tutto al grande Augusto in mano;
E vedrà d’haver preso in van per scopo,
Che serva il Tarpeo nostro al suo Canopo.
Volte infinite havrà di palma, e lauro
Ornato il crin questo felice Augusto.
Sarà suo tributario e l’Indo, e ’l Mauro,
Con lo Scita sanguigno il Moro adusto.
Tornata al mondo poi l’età de l’auro,
Si volgerà come benigno, e giusto
A dar le leggi, à far del mondo un tempio,
A farsi à ogn’un di ben’oprare essempio.
E con maturo, e provido consiglio,
Riguardo havendo à la Romana sede,
A suoi nipoti, al publico periglio,
Con buona mente, e purità di fede
S’eleggerà di santa madre un figlio,
E del nome, e del regno il farà herede.
Finita poi l’età tarda, et imbelle
Risplenderà fra le cognate stelle.
Si che figliuola mia vattene intanto
Verso la salutifera congiura,
E ferito che gli hanno il carnal manto,
De lo spirito suo prendi tu cura.
Fallo splendor del regno eterno, e santo,
E la divina in lui forma figura;
E fa, che dal supremo ethereo chiostro
Riguardi il Campidoglio, e ’l tempio nostro.
In quel, che Giove parla, i lumi intende
Verso il nepote suo Venere, e mira,
Che Cassio, e Bruto co’ l pugnal l’offende,
Con ogni cavalier, che vi cospira;
Tosto invisibil nel Senato scende,
Non l’aiuta però, ma come spira,
Che si risolva l’alma non comporta
In aere, ma la prende, e al ciel la porta.
Mentre la Dea per l’aere la conduce,
S’infiamma, e acquista à se foco, e splendore.
Tosto, che Citherea vede, che luce,
E che viene il suo foco ogn’hor maggiore,
Sapendo la natura de la luce,
C’ha d’alzarsi da se forza, e vigore,
La lascia: ella à le parti alte, e divine
Poggia con lungo, e fiammeggiante crine.
Crinita al fin nel ciel giunge una stella
Cesare fra le luci alme, e sovrane.
Dove risplende luminosa, e bella,
Onde riguarda l’attioni humane.
E mentre il mondo Augusto il figlio appella,
Per haver si lontan l’arme Romane
Stese, s’allegra di esser vinto, e gode,
Che ’l figlio, ch’ei lasciò, sia di più lode.
Ben che ’l più chiaro, e più felice Augusto
Nega, che ’l suo valor sia di più pregio:
E ’l nega con ragion: che pargli ingiusto
Di farsi da se stesso alto, et egregio.
Ma de la vera fama il grido giusto,
Ch’inalza il suo splendor sublime, e regio,
Sopra ogni huom, che fu mai, l’estolle, e canta,
E sopra il padre anchor l’ammira, e vanta.