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quintodecimo. 266

Guidala pure al regno alto, e giocondo,
     Com’esce l’alma del suo albergo fuora.
     Che ’l figlio havrà la Monarchia del mondo,
     Ne dubitar, che invendicato muora.
     Che come egli havrà in terra il maggior pondo,
     E che vedrà l’occasione, e l’hora,
     In parte ei condurrà l’armate squadre,
     Che vendetta faran del morto padre.

Potran far fede e Modona, e Farsaglia,
     E ’l campo Macedonico del vero,
     Quanto ne l’arme, e nel giudicio vaglia
     Questo, c’havrà del mondo il sommo impero
     Che vinti fien per forza di battaglia,
     E ’l faran gir de’ suoi trionfi altero.
     E ’l mar Siculo anchor potrà dir come
     Vincerà lui, c’havrà di Magno il nome.

Del grande Egitto l’inclita Regina
     Fatta consorte al gran Duce Romano,
     Havrà per quel, che ’l fato à lui destina,
     Ne le sue nozze confidato in vano:
     Che vedrà del suo imperio la ruina,
     E venir tutto al grande Augusto in mano;
     E vedrà d’haver preso in van per scopo,
     Che serva il Tarpeo nostro al suo Canopo.

Volte infinite havrà di palma, e lauro
     Ornato il crin questo felice Augusto.
     Sarà suo tributario e l’Indo, e ’l Mauro,
     Con lo Scita sanguigno il Moro adusto.
     Tornata al mondo poi l’età de l’auro,
     Si volgerà come benigno, e giusto
     A dar le leggi, à far del mondo un tempio,
     A farsi à ogn’un di ben’oprare essempio.

E con maturo, e provido consiglio,
     Riguardo havendo à la Romana sede,
     A suoi nipoti, al publico periglio,
     Con buona mente, e purità di fede
     S’eleggerà di santa madre un figlio,
     E del nome, e del regno il farà herede.
     Finita poi l’età tarda, et imbelle
     Risplenderà fra le cognate stelle.

Si che figliuola mia vattene intanto
     Verso la salutifera congiura,
     E ferito che gli hanno il carnal manto,
     De lo spirito suo prendi tu cura.
     Fallo splendor del regno eterno, e santo,
     E la divina in lui forma figura;
     E fa, che dal supremo ethereo chiostro
     Riguardi il Campidoglio, e ’l tempio nostro.

In quel, che Giove parla, i lumi intende
     Verso il nepote suo Venere, e mira,
     Che Cassio, e Bruto co’ l pugnal l’offende,
     Con ogni cavalier, che vi cospira;
     Tosto invisibil nel Senato scende,
     Non l’aiuta però, ma come spira,
     Che si risolva l’alma non comporta
     In aere, ma la prende, e al ciel la porta.

Mentre la Dea per l’aere la conduce,
     S’infiamma, e acquista à se foco, e splendore.
     Tosto, che Citherea vede, che luce,
     E che viene il suo foco ogn’hor maggiore,
     Sapendo la natura de la luce,
     C’ha d’alzarsi da se forza, e vigore,
     La lascia: ella à le parti alte, e divine
     Poggia con lungo, e fiammeggiante crine.

Crinita al fin nel ciel giunge una stella
     Cesare fra le luci alme, e sovrane.
     Dove risplende luminosa, e bella,
     Onde riguarda l’attioni humane.
     E mentre il mondo Augusto il figlio appella,
     Per haver si lontan l’arme Romane
     Stese, s’allegra di esser vinto, e gode,
     Che ’l figlio, ch’ei lasciò, sia di più lode.

Ben che ’l più chiaro, e più felice Augusto
     Nega, che ’l suo valor sia di più pregio:
     E ’l nega con ragion: che pargli ingiusto
     Di farsi da se stesso alto, et egregio.
     Ma de la vera fama il grido giusto,
     Ch’inalza il suo splendor sublime, e regio,
     Sopra ogni huom, che fu mai, l’estolle, e canta,
     E sopra il padre anchor l’ammira, e vanta.