Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/542

Vedete quante insidie, e quante pene
     M’ appresta quella ingiusta empia congiura.
     Misera me, dapoi ch’ ogni hor m’ aviene
     Nova calamità, nova sciagura.
     Toglie Tidide il sangue à le mie vene,
     Cadon di Troia mia l’ altere mura.
     Salvar conviemmi Enea da l’ importuno
     Mare, et al fin da Turno, anzi da Giuno.

Ahi, che fur nulla i miei passati scempi,
     S’havrò riguardo al mio novo tormento.
     Deh non facciano, ò Dei, quei crudi, et empi
     Tanto senno morir, tanto ardimento.
     Non comportate, che ne’ santi tempi
     Di Vesta resti in tutto il foco spento
     Dal sangue del supremo Sacerdote,
     Perpetua doglia à l’ alme alme, e devote.

Queste, et altre parole in van dicea
     L’afflitta Citherea con van discorso.
     Gli Dei bene à pietà tutti movea,
     Ma non potea impedire il fatal corso.
     Pur se ben tor da lor non si potea,
     Che non fosse à tant’ huom piagato il dorso;
     Voller con più di un segno horrendo, e tristo,
     Che quà giù tanto mal fosse previsto.

Fu fra le nere nubi udito intorno
     Urtarsi l’ arme insieme, e farsi guerra.
     S’udì con mesto suon la tromba, e ’l corno
     Co’ l tuon, che ’l più crudel folgore atterra.
     Fu fuor di modo oscuro, e tristo il giorno:
     Tremò l’ alta citta, tremò la terra.
     Piovve giù sangue, e ne le selve sacre
     S’ udir note ne l’ aere horrende, et acre.

La Luna il suo splendor di sangue sparse,
     Latrar di notte intorno à tempi i cani.
     Ne l’ hostia ogni infelice segno apparse,
     Lasciar gli avelli sgombri i morti, e vani.
     Le statue de gli Dei di pianto sparse,
     E mille altri portenti horrendi, e strani
     Fur visti: e abbandonaro i gufi il nido,
     E fer per tutto udir l’ infame strido.

Ma non poter mille segni infelici
     Far, ch’ ei fuggisse il fato acerbo, et empio.
     Andaro armati i suoi crudi nemici
     In mezzo del Senato, in mezzo al tempio
     Fra santi simulacri, e santi uffici
     Per far di si grand’ huom l’ ultimo scempio,
     Come ne la città non fosse stato
     Luogo per tanto mal, se non sacrato.

Il bianco sen ferì, stracciò le chiome
     Venere, quando ignudi i ferri vide.
     E ’l volle in una nube asconder, come
     Fe, quando ascose Paride ad Atride;
     Ó come quel, cui le terrene some
     Ella formò, salvò dal gran Tidide.
     Ma Giove immantinente à lei s’ oppose,
     E ’l decreto divin cosi gli espose.

Che fai figliuola mia? che fai? non vedi,
     Che cosi da principio era ordinato?
     E stolta in tutto sei, se sola credi
     Di superar l’ insuperabil fato.
     Va da te stessa à le tre Parche, e chiedi,
     S’ è tempo anchor, ch’ in ciel venga beato.
     Dove potrai veder nel suo destino,
     Ch’ Atropo à questo fin già tronca il lino.

In gran quadri di bronzo essere scritto
     Tutto il destin del tuo germe vedrai:
     Ne v’ è timor, che ’l mio folgore invitto,
     Ne ch’ infortunio alcun lo svolga mai.
     Scaccia pure il dolor dal core afflitto,
     Asciuga pure i lagrimosi rai,
     Che gli ho veduti, e letti, e vo contarti
     Quel, che disposto n’ han per rallegrarti.

Per far restar più lungamente vivo
     Cesare, in van tu t’ affatichi, in terra;
     Ch’ è giunto il tempo, il qual de l’ alma privo
     Dovea fare il suo corpo andar sotterra.
     Hor tu dei farlo al cielo ascender Divo
     Subito, che ’l suo spirto si disserra
     Dal corpo humano: hor fallo, e danne indicio
     À fin ch’ egli habbia i tempij, e ’l sacrificio.