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quintodecimo. 265

Visto i Romani un tempio esser vicino
     Fer fumar su l’altar l’incenso, e ’l lume.
     E ricercar del suo favor divino
     Il sempre biondo Dio, ch’ivi era Nume.
     Uscir volle Esculapio anchor del pino
     Per servar verso il padre il pio costume.
     Serpendo uscì del pin devotamente,
     E ’l tempio salutò del suo parente.

Subito la fortuna al suo fin venne,
     Onde tutti tornar sopra la nave.
     E per giudicio universal si tenne,
     Che ’l mar fesse Esculapio oscuro, e grave,
     Per far calare in quel lito l’antenne,
     Per far l’officio pio, ch’ivi fatt’have.
     Allegro il legno il vento in poppa tolse,
     E nel suo grembo il Tebro al fin l’accolse.

Viene à incontrarlo ogni gran Senatore,
     Ogni gran cavalier, tutta la turba.
     Pregan le madri pie, pregan le nuore,
     Che toglia il mal, che la città disturba.
     Mille altari su ’l Tebro alzar l’odore
     Sabeo fan sino al ciel mentre ei s’inurba.
     Cantan hinni per tutto, e in mille lochi
     Fan mille sacrificij, e mille fochi.

Alza il collo entro à Roma il serpe tanto,
     Che quasi il capo suo l’arbore eccede;
     E intorno à la città dà gli occhi intanto
     Per veder quale à lui convenga sede.
     Risolve poi volere il tempio santo,
     Dove in due parti farsi il Tebro vede;
     Dove divide il suo fonte in due braccia,
     Indi l’unisce, et una isola abbraccia.

Giunta la nave à l’isola, discende
     Il serpe, e ponsi à punto in quella parte,
     Dove d’havere il divin tempio intende
     Dal devoto di lui popol di Marte.
     Quivi la forma sua divina prende,
     E l’infelice peste indi si parte.
     S’allegra Roma, e fa superbo un tempio,
     E ponvi d’Esculapio il vero essempio.

Ma s’allhor s’allegrò d’un Dio straniero
     Roma, e fondogli il tempio, e ’l rito pio,
     Ben fu il suo gaudio in ogni parte intero,
     Quando un de figli suoi vide esser Dio.
     Cesare, che di Roma il sommo impero
     Ottenne primo, anch’egli al ciel salio.
     E con gaudio maggior nel patrio sito
     Da suoi proprij hebbe il tempio, e ’l santo rito.

Non fu tanto il valor, c’hebbe ne l’armi,
     Non ne la toga, e nel negotio il senno,
     Ch’à lui drizzare i sacri, e ricchi marmi
     Con si grande artificio in Roma fenno;
     Non fer tanto cantargli i santi carmi
     Mille, che gli alti Dei gratie à lui denno;
     Non tanto essere stato humano, e giusto,
     Quanto, ch’esser dovea padre d’Augusto.

Dunque il domar gl’indomiti Britanni,
     La Francia, il Ponto, l’Africa, e l’Egitto;
     L’haver tutti impiegati i giorni, e gli anni
     Continuo in guerra, e rimanere invitto;
     E in mezzo à tante morti, à tanti affanni
     L’haver con tanta gloria oprato, e scritto;
     Noi vorrem dir, che sia di maggior pregio
     Che l’haver fatto un figlio cosi egregio?

Perche tanto huom, quanto fu Augusto al mondo,
     Non d’un mortal nascesse, ma d’un Nume,
     Convenia, che nel regno alto, e giocondo
     Cesare risplendesse un nuovo lume;
     E fosse tolta l’alma al carnal pondo
     Fuor de l’humano, e natural costume.
     Ben vide Citherea l’odio, e ’l trattato:
     Ma chi può contraporsi al cielo, e al fato?

Riguarda ben da la celeste corte
     Citherea Cassio, e Bruto, e gli altri insieme
     Al pronepote suo giurar la morte;
     E tanto il miser cor l’affligge, e preme,
     Che cerca d’impedir la fatal sorte;
     E innanzi ad ogni Dio supplica, e geme,
     Ch’un sol, che gli è restato del suo sangue,
     Non lascin per tal via venire essangue.