A pena il popol di pregar s’arresta,
Ch’entra lo Dio nel suo proprio serpente,
Tal che il serpe avivato alza la testa,
E manda il sibil fuor, ch’ogn’uno il sente.
Tutta tremante, e sbigottita resta
La turba senza fin, ch’ivi è presente.
E più, che nel finir de i sacri carmi
Tremò l’altar, la statua, e i santi marmi.
Tosto priva di se lascia la verga
Il serpe, e sopra il pavimento scende:
E, come è in mezzo al tempio, alza le terga,
E gira il collo, e intorno i lumi intende.
Poi per lasciare il nido ove egli alberga,
Ver la porta maggiore il camin prende.
Veduto questo il sacerdote esclama,
Questo, questo è lo Dio, che Roma brama.
Saluti con la lingua, e co ’l pensiero
Ogn’un lo Dio, che al nostro voto applaude,
Co ’l cor volto ver lui puro, e sincero
Ogn’uno l’adori, e cola, ogn’uno il laude.
Tu, che discendi del celeste impero,
Giova, ti prego, à noi che ti diam laude:
Fà, che il tuo scender da l’empirea sede
Sia con utilità di chi ti vede.
Tutto quel ben, che ’l sacerdote santo
Dice verso lo Dio propitio, e fido,
Replicato è dal popol tutto quanto
Co ’l geminato tuon, co ’l santo grido.
Co ’l sibilo, e co ’l cenno applaude intanto
Il serpe, et esce del suo antico nido.
Scende le scale, e volge à dietro i lumi,
E quei, che vuol lasciar, saluta Numi.
Co ’l sibilo, e co’ rai l’antico tempio
Saluta, e quindi segue il suo viaggio.
Del suo si fido, e si devoto essempio
Fa lieto ogni Roman dentro il coraggio,
Che sperano, che ’l morbo iniquo, et empio
Debbia ammorzar, che lor fa tanto oltraggio.
Ovunque si rivolti il serpe, e vada,
D’herbe odorate, e fior gli ornan la strada.
Per mezzo la città serpe, e s’aggira
Per la strada miglior, che ’l guida al mare;
E quinci, e quindi il pio popol rimira,
Che canta le sue prove illustri, e rare.
Ver la nave Romana amore il tira,
E in quel, che sopra il ponte vuol montare,
Rivolge il guardo in questa, e in quella parte,
E fa l’officio pio d’un, che si parte.
Su l’asse poi, che sta fra il lito, e ’l legno
Serpendo entra lo Dio sopra la nave:
La qual dal peso un manifesto segno
Hebbe, d’esser d’un Dio superba, e grave.
Rendon Romani al sempiterno regno
Gratie del raro don, che lor fatt’have.
D’un toro sacrificio allegri fanno
Su ’l lito, e poi le vele à venti danno.
L’onde con aura dolce il legno fende,
E ’l serpe intanto in sù la poppa siede.
Et alza il collo, e il guardo in giro intende,
E d’ogni intorno il mar ceruleo vede.
Tanto che ’l sesto dì l’Italia prende
Vicino al promontorio, ove risiede
La Licinia Giunon nel suo bel tempio,
Ú già stava Licinio avaro, et empio.
Lascia lo stretto à dietro di Messina,
E da man destra la Calabria scorge.
Indi al nobil Sorrento s’avicina,
Ú l’arbor di Lieo si lieto scorge.
Ver la città dapoi, ch’ivi è Reina,
Ch’à l’otio, e al van disio tutta si porge,
Si drizza; indi la perde, e giunge al passo,
Onde si scende al regno oscuro, e basso.
Lasciato Cuma, e ’l passo, onde à l’inferno
Passò con la Sibilla il saggio Enea,
Seguendo il lor camin, veggon Linterno,
E la piaggia fruttifera Circea.
Quivi sorgendo in mar l’horribil verno
Fermasi, ù nocer men l’onda potea,
Dov’entra in mare un gran braccio di terra,
E fa riparo à la marina guerra.