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Ma ben l’assicurar da quella sorte,
     Che volea porre in cima de la rota
     Cippo, ma non da l’ aspra, e cruda morte,
     Che quasi la città restar fe vota.
     Ne la Romana imperiosa corte
     Venne una peste in modo empia, et ignota,
     Che non potè la medicina, e l’arte
     Assicurarne la millesma parte.

Poi che conobber tale esser la peste,
     Che non potea giovar rimedio humano,
     Ricorselo a l’aiuto alto, e celeste,
     Per non si affaticar più tempo in vano.
     Molti mandar de le più saggie teste,
     Che nel Senato allhor fosser Romano,
     In Delfo ver lo Dio lucido, e biondo,
     Là dove ha un tempio illustre in mezzo al mondo.

Giunti, pregan l’Oracolo, che voglia
     Dar lor fido consiglio, e certo aiuto,
     Ch’à Roma l’incurabil peste toglia
     Pria, che sia il popol suo tutto perduto.
     Del Lauro allhor tremò la casta foglia,
     Tremò il muro, e l’altar: ne stè più muto
     L’Oracol de lo Dio, che ’l giorno guida,
     E fè udir questa voce utile, e fida.

L’aiuto, ch’ impetrar santo, e divino
     Bramate, e in questo tempio à me chiedete;
     V’era mestier cercarlo più vicino,
     E sò che più vicino il cercherete.
     Per torvi al mortal vostro empio destino,
     Non v’è d’huopo lo Dio, che qui vedete:
     Non vi bisogna Apollo, ò ’l suo consiglio,
     Ma vi bisogna ben d’Apollo il figlio.

Poi c’hebbero i legati rapportato
     Le proprie de l’Oracolo parole,
     E che discorso assai fu nel Senato,
     Dove albergasse l’Apollinea prole:
     Che stava in Epidauro fu trovato,
     Ne la superba à lui sacrata mole.
     Tosto crear novi legati, e furo
     In breve dentro al destinato muro.

Al publico collegio se ne vanno,
     E porgon preci pie, ch’à lor si preste
     La pia, che d’Esculapio imagine hanno,
     Fatal rimedio à la Latina peste.
     Molti per riparare à tanto danno
     Di Roma, approvan le dimande honeste;
     Non voglion molti (e sono à le contese)
     Privar del proprio aiuto il lor paese.

Mentre il Senato dubbio non risolve,
     S’al Roman satisfar denno desio,
     Lo ciel, che sopra noi si move, e volve,
     Fè, che la notte venne, e ’l dì spario.
     Hor mentre ne le piume ogn’un s’ involve,
     Al nuntio appar Roman l’amato Dio.
     Ne la sinistra il serpe have, e la verga,
     Par, che la destra il mento allisci, e terga.

Poi rompe la favella in questo accento.
     Pon giù forte Romano ogni timore,
     Ch’io vò venire à Roma, e far contento
     Il buon popol Latin del mio favore.
     In questo serpe mio tien l’occhio intento,
     Nota la sua figura, e ’l suo splendore;
     Si che ben riconoscer poi mi possa,
     Ch’ io vò vestir di lui la carne, e l’ossa.

Quel serpe avolto al mio bastone intorno
     Io mi vò far, ma ben maggiore, e tale
     Di luce, e d’ oro, e d’ogni pregio adorno,
     Qual si conviene ad huom fatto immortale.
     Lo Dio poi sparve, e ’l sonno: e innanzi al giorno
     L’Aurora per lo ciel battea già l’ale,
     Quando levossi ogn’ huomo, e venne al tempio,
     Dentro al qual d’ Esculapio era l’essempio.

Dal publico consiglio il giorno avante
     Dubbio di dar lo Dio s’era ordinato
     D’appresentarsi à le sue pietre sante;
     Per veder s’alcun segno havesse dato.
     Hor come al sacro altar furon davante
     Co’l ginocchio, e co’l ciglio ogn’un chinato,
     Pregar, ch’ei dimostrasse à qualche segno,
     S’amava stare, ò pur uscir del regno.