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quintodecimo. 263

Stupido l’arator le luci intende
     Ne la gleba fatal, come si move,
     E vede, ch’altra forma acquista, e prende,
     E che in tutto il terren da se rimove.
     Tal che fatto un garzon, spira, et intende,
     E disse à l’arator cose alte, e nove.
     Tage il nomaro, e fu il primo indovino,
     Ch’ivi insegnò à predir l’altrui destino.

Non men Virbio stupì del caso strano,
     Che fece Egeria trasformare in onde,
     Di quel, che ’l primo Re stupì Romano,
     Quando ne l’hasta sua nacque la fronde.
     Un tratto un dardo aventa egli, e su ’l piano
     Del monte Palatin la punta asconde.
     Vuol poi fuor trarlo, e ’l telo al suol s’attiene,
     E cresce in rami, e in frondi, e un’arbor viene.

Non men di maraviglia à Virbio porse
     La Ninfa Egeria trasformata in fonte,
     Di quella, c’hebbe Cippo, quando scorse
     Ne l’onda haver le corna in su la fronte.
     Gran novità fu questa, che gli occorse:
     E seguendo il mio fil vien, ch’io la conte.
     Poi che fu morto Numa, al regno venne
     Tullo il feroce, e dopo Anco l’ottenne.

Il regno prese poi Tarquinio Prisco,
     Poi Servio Tullio, il qual fu tolto al giorno
     Dal Re, che preso à l’amoroso visco
     Fè si grande à Lucretia oltraggio, e scorno.
     Non voller porsi più i Romani à risco,
     Ch’un sol contra la patria alzasse il corno.
     Tal ch’ordinaro il Consolar governo,
     Per far quieto il lor stato, et eterno.

Venne in tanto odio in Roma il nome regio,
     Ch’alcun non ne volea sentir parlare.
     Hor godendosi in Roma un stato egregio
     Sotto il governo illustre Consolare,
     Essendo Cippo huom di valore, e pregio
     In una grande impresa il fero andare;
     E mentre allegro, e vincitor ritorna,
     Si vede in una fonte haver le corna.

Al fonte, à gli occhi suoi proprij non crede,
     Cippo, et alza le man verso le tempie,
     E tocca di man propria quel, che vede,
     E di più gran stupor s’ingombra, et empie.
     Gli occhi, e le corna à la superna sede
     Alza, e dice. Signor, se ben troppo empie
     Fur l’opre mie ver tè, perdon ti chieggio
     Con quella fede, et humiltà, che deggio.

Ó ch’al superbo popol di Quirino,
     Ó che minacci à me questo portento,
     Scaccia da noi col tuo favor divino
     Il temuto fatal danno, e tormento.
     Sparge sopra l’altar co ’l latte il vino,
     E move il sacro, e glorioso accento,
     E prega il dotto haruspice Toscano,
     Che ’l futuro destin gli faccia piano.

Come il Toscan considerò sacrista
     De l’ucciso animale il corpo interno,
     Disse. Signor gran novità v’ho vista,
     Ma manifesta anchor non la discerno.
     Ma come verso Cippo alza la vista,
     E conosce il voler del fato eterno,
     Mira le corna sua contento, e lieto,
     E queste cose à lui dice in secreto.

Ó salve Re, ch’al buon popol di Marte
     Esser dei Re, se ’l ver dice la sorte:
     Moviti, e più non stare in questa parte,
     Ma và con lieto cor dentro à le porte:
     Che vuol quel, che le gratie in ciel comparte,
     Che ’l buon popol Latin prudente, e forte
     Obedisca à la tua cornuta fronte,
     E che Re su ’l Tarpeo t’elegga monte.

Subito il cavalier prende consiglio
     Di disprezzar la dignità futura,
     E volge tosto altrove il piede, e ’l ciglio,
     E non vuol più veder le patrie mura.
     Più tosto io vò soffrir perpetuo essiglio,
     (Dicea) ch’in Roma haver la regia cura;
     Ogni stratio, e martir pria soffrir voglio,
     Che farmi veder Re dal Campidoglio.