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Mentre il Troiano imperio al fin tendea,
     E molto dubbia havea la sua salute;
     Heleno disse un giorno al giusto Enea.
     Tu sarai quel, che con la tua virtute
     In piè terrai l’alta cittate Idea,
     Anchor che da l’imperio il luogo mute.
     Ti farai strada in mezzo al ferro, e al foco
     Per salvar l’honor Frigio in miglior loco.

Dove i nipoti tuoi poi fonderanno
     Una città di si nobil presenza,
     Che di quante ne fur, sono, e saranno,
     Havrà più cor, più forza, e più prudenza.
     E i saggi suoi patritij d’anno in anno
     Multiplicando andran la sua potenza,
     Fin che del sangue tuo quel nato sia,
     Che le darà la somma Monarchia.

Questo divino, e glorioso Augusto
     Come l’havrà goduto il nostro mondo,
     E che lasciato havrà l’humano busto
     L’alma, sostegno al suo terrestre pondo;
     Darà lo spirto suo purgato, e giusto
     Al più felice cielo, e più giocondo.
     N’havrà la terra il nome, e ’l mortal velo,
     De la bell’alma sua godrassi il cielo.

Questo mi ricordo io dal saggio Heleno
     Al gran figliuol d’Anchise esser predetto,
     E di somma allegrezza ho colmo il seno,
     Poi che ’l suo vaticinio hoggi have effetto.
     E che in quel lieto, e fortunato seno
     Al ciel la città nova alza ogni tetto.
     M’allegro, che vincesse il Greco sdegno
     Con grande utilità del Frigio regno.

Ma per non uscir tanto del viaggio,
     E per drizzarmi al fin del mio sentiero,
     Ciò, che la Luna star sotto al suo raggio
     Vede, trasforma il suo volto primiero.
     Pero discorra l’huom prudente, e saggio
     Con sana mente, e con giudicio intero,
     Ch’essendo noi corpi terreni, è forza,
     Che trasformiam questa terrena scorza.

Ne solamente il corpo si trasforma;
     Ma l’alma, essendo volativa, e leve,
     Da noi partendo un’ altro corpo informa,
     E qualità da quel corpo riceve,
     Perche s’ad una fera dà la forma,
     È forza, che ’l discorso à lei si leve;
     Onde in quel corpo un’altra forma prende,
     Dapoi che già intendeva, hor non intende.

Tanto che di ragion dobbiam privarne
     Di mangiar l’ animal per men periglio,
     Dapoi che in lor van le nostre alme à starne,
     Come del corpo human prendono essiglio.
     Che potrebbe talhor mangiar la carne
     Il padre del figliuol, del padre il figlio.
     Che se’l mio padre in quel corpo s’interna,
     La carne à divorar vengo paterna.

Suol l’alma anchor d’un bruto entrare in noi,
     E l’organo trovando più disposto,
     Acquista lume à lumi interni suoi,
     E vede quel, che pria gli era nascosto.
     Si che quell’animal più non s’annoi,
     Dove può il padre nostro esser riposto.
     Lascisi pure il bue, che ’l giogo porte,
     E che il tempo gli dia, non l’huom, la morte.

Deh vi mova à pietà co’l suo mugito
     L’ à pena nato, e tenero vitello;
     V’intenerisca il cor co’l suo vagito
     Il lascivo capretto, e’l molle agnello,
     Per ischivar, che ne l’human convito
     Non si mangi altri il figlio, altri il fratello.
     Che non rendan le mense empie, e funeste
     Di Thereo le vivande, e di Thieste.

Quell’arme da l’agnelle haver vi piaccia,
     E bastin, ch’armar ponno il corpo ignudo;
     À fin che quando Borea il mondo agghiaccia,
     Facciano al nostro sen riparo, e scudo.
     Bastivi haverne il latte, e non si faccia
     Oltraggio al corpo lor co’l ferro crudo.
     Toglia le rete, e l’hamo al pesce il risco
     De la morte, à l’augel la rete, e ’l visco.