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quintodecimo. 261

Non pasce il suo digiun di seme, e d’herba,
     Ma d’ogni odor più pretioso, e santo.
     Continuo in vita la mantiene, e serba
     L’ambra, l’incenso, e de la mirra il pianto.
     Compon sopra una palma alta, e superba,
     Quando vuol rinovar l’etate, e ’l manto,
     Un nido allhor, c’ha la sua età fornita,
     E visto ha cinque secoli di vita.

L’empie di nardo, cinnamomo, e croco,
     Poi tanto al caldo Sol vi batte l’ale,
     Che fra gli odori al più cocente foco
     Del giorno spira fuor l’aura vitale.
     Cosi finisce il suo tempo, e in suo loco
     Di lei si forma un picciolo animale,
     Che fa le piume poi cosi leggiadre,
     Ch’à rimirarlo par la stessa madre.

Poi quando à tale età giunta si vede,
     C’ha coraggio, poter, forza, e governo,
     Afferra il nido suo proprio co ’l piede,
     La culla propria, il pio rogo materno;
     E di divotion piena, e di fede
     Accesa di pietate il core interno,
     A la città del Sol volando passa,
     E nel suo tempio santo il porta, e lassa.

E che di più stupor può far Natura
     Di quel, che à l’animante Hiena aviene?
     Ch’essendo maschio il proprio esser gli fura,
     E di sposo, che fu, sposa diviene?
     E mentre un’anno in quello stato dura,
     Quel sopra il tergo suo sposo sostiene,
     A cui già preme il dosso. E d’anno in anno
     Hor marito, hora moglie ambo si fanno.

Il picciolo animal Camaleonte,
     Che sol de l’aura vive, onde respira,
     Se ben non cangia la sua propria fronte,
     Cangia il color, ch’à se vario ogn’hor tira.
     Quel Re, che già sotto l’Imavo monte
     Quel Lupo fessi, che si lunge mira,
     Aurea de la vessica un’acqua impetra,
     Che si congiela in pretiosa pietra.

E s’hoggi raccontar voglio ogni cosa,
     Che d’una in altra spetie si trasporta,
     Farà prima la notte atra, e noiosa
     La bella alma del dì rimaner morta:
     E non per questo ogni cagione ascosa
     Ne potrò dir: che ’l tempo no ’l comporta.
     Si cangia anchora ogni imperio, ogni regno,
     E tal hieri obedì, c’hoggi è più degno.

Troia, che già de l’Asia era Regina,
     Ricca, e felice sopra ogni altra terra,
     Che per dieci anni i fiumi à la marina
     Correr di sangue fè per tanta guerra;
     Hoggi non è se non herba, e ruina,
     E piena d’ossa, e cultivata terra.
     E mostran per richezza, e per thesoro
     I sepolcri, che v’han de gli avi loro.

Chiara fu Sparta già, chiara Micena,
     Chiaro di Cadmo il regno, e di Minerva;
     Hoggi il sito di Sparta è nuda arena,
     Giace Micena, e l’altrui leggi osserva.
     Che resta hoggi di Thebe? e che d’Athena,
     Che già parte de l’Asia hebber per serva.
     Di si chiare città vedete, come
     Hoggi non resta al mondo altro, che ’l nome.

La fama già per tutto ha pieno il mondo,
     Di quanto cresce hor la Dardania ROMA
     Nel seno appresso al Tebro più fecondo,
     Dove già nacque chi da lui la noma.
     Da questa (come il regno alto, e giocondo
     Vuole) ogni Monarchia fia vinta, e doma.
     Sarà soggetto il mondo in ogni parte
     A la città del gran figliuol di Marte.

Cosi crescendo cangia il primo stato,
     E miglior forma in ogni parte prende,
     Poi che de sette colli, e d’un gran prato
     Vien tant’alta città, ch’al cielo ascende.
     La qual reggerà il mondo in ogni lato,
     Per quel, che da profeti se n’intende.
     Et Heleno ho in memoria, e quel, che disse,
     Mentre in Euforbo il mio spirto già visse.