Quindi l’huom venne poi più crudo, e fello,
Ch’à l’animal dimestico fe guerra:
E fece con l’ingiusto empio coltello
Prima il porco cader gridando in terra,
Dicendo, che fu à Cerere ribello,
Che ’l gran mangiò, c’havea posto sotterra.
E ne fece hostia à lei, perche ’l suo danno
Tolta del grano havea la speme à l’anno.
Scannò poi su l’altare à Bacco il becco,
E trovar seppe scusa, che ’l meschino
A la sua vigna il pampino havea secco,
E la speme à lo Dio tolta del vino.
Ma ’l fe, che di lui volle ungersi il becco,
E con l’officio, ch’ei finse divino,
Per iscusar la sua ingordigia ingiusta,
Chiamò la morte sua legale, e giusta.
E che sia ’l ver, che la gola fu quella,
La qual vi spinse à l’empio sacrificio;
Che fece mai la fertil pecorella,
Che ’l mondo ne sentisse pregiudicio?
La qual col nettar de la sua mammella
Fa per ogn’huom si liberale officio?
Che con la lana sua ne forma il manto?
E con la vita sua ne giova tanto?
Che male il bue fe mai puro, innocente,
Che tanto stratio, e mal per l’huom sopporta?
E pur la scure, e la mal perversa gente
Contra ogni legge à lui la vita accorta.
Ó quanto è indegna quella iniqua mente
Del nobil don, che Cerere n’apporta,
Ch’à quello agricultor percuote il volto,
Che da l’aratro havea pur dianzi tolto.
Ó voglie troppo à l’honestà nemiche,
Hor quando s’udì mai si crudo essempio?
Quel, che durò per lui tante fatiche,
Obediente bue, conduce al tempio.
Quel, che rifè tant’anni à lui le spiche,
Percuote con la scure ingiusto, et empio.
Quel proprio agricultor l’iniquo atterra,
Che tanti anni per lui ruppe la terra.
Ne basta, ch’un’error si infame, e crudo
Con si ferino cor gli huomini fanno,
Che per farsi al mal far riparo, e scudo
A gl’innocenti Dei la colpa danno.
E, che ’l bue fan restar de l’alma ignudo,
Dicon, perche gli Dei gran piacer n’hanno.
E in pregiudicio del futuro grano
Fanno hostia del più bello, e del più sano.
Ó sciocchi, e forse à un tratto ognun non corre,
Tosto che ’l miser bue s’apre, e si parte.
E forse ognun la mente non discorre
De gli alti Dei ne la sua interna parte.
Quant’era meglio al suo Signor no ’l torre
Dal crudo aratro, e da la rustica arte;
E viver di quel gran, che potea trarne,
Più tosto, che la sua divorar carne.
Onde, oime, nasce un desir tanto ingordo
Del cibo irragionevole, e vetato?
Siate, vi prego, al mio voler d’accordo,
E non vogliate far si gran peccato.
Deh no ’l fate, io vi prego: e vi ricordo,
Che se mettete il bue sotto al palato,
Mangiate un vostro proprio agricultore,
E fate forse error molto maggiore.
Hor poi che Dio la mia favella move,
E quel, che v’ho da dir, mi pone avante;
Al regno voglio anch’io salir di Giove,
Voglio le spalle anch’io premer d’Atlante.
E quindi poi cose stupende, e nove
Vò fare udir al vostro animo errante.
Hor udite il dir mio, mentre apre il velo
A secreti mirabili del cielo.
Ó germe humano attonito, e stordito,
Quanto dal ver co ’l senno t’allontani.
Ond’è, che tanto il regno di Cocito
Temi, e la morte, e gli altri nomi vani?
Tosto che ’l vital corso hanno fornito
I corpi, ò sian ferini, ò siano humani;
Son fatti polve, ò dal tempo ò dal foco,
Et à viver van l’alme in altro loco.