Accenna il Re del sempiterno regno
A lo Dio più superbo, e più iracondo,
Che giudica del ciel Romolo degno,
E ch’egli il guidi al seggio alto, e giocondo.
Per darne poi più manifesto segno
Co ’l folgore, e co ’l tuon tremar fe il mondo.
Lo Dio de l’arme allhor su ’l carro ascese.
E sopra il Palatin monte discese.
Trova il figliuol lo Dio del ciel più fero,
Ch’ivi dà legge al buon popol Romano,
Non co ’l regio rigor superbo, e altero,
Ma qual buon padre amabile, et humano.
Su ’l carro il prende, e poi presto, e leggiero
Poggiare il fece al regno alto, e soprano.
Si scalda il mortal corpo andando, e lascia
In aere via sparir la carnal fascia.
S’accresce al corpo in aere ogni hor vigore,
Già fra l’humano, e lo Dio la forma ha mista.
Già del corpo mortale in tutto è fuore,
E già quello splendor quel volto acquista,
Che d’altare, e d’incenso, e d’ogni honore
Il mostra degno à l’habito, e à la vista.
L’accoglie Giove, e l’alme elette, e belle,
E ’l fan splender la sù fra l’altre stelle.
In quel momento in ciel Romolo tolto
Dal furibondo auttor fu de la guerra,
Che Giove co ’l suo nembo oscuro, e folto,
E co ’l suo tuon tremar fece la terra.
L’infelice sua moglie, dopo molto
Cercarlo, il passo al pianto, e al duol disserra;
La misera il piangea, come perduto,
Però che ’l ratto suo non fu veduto.
Se bene il sangue Frigio in odio havea,
E per tutto n’havea le glebe sparte,
Non però al novo Divo odio tenea
Giunon, ch’à lei nipote era per Marte.
Anzi in particular le dispiacea
Di non poter la sua favorir parte,
Che l’odio universale era maggiore
Di quel, che solo à lui portava, amore.
Con gli altri Dei celesti ella l’accolse,
E si mostrò ver lui benigna, e fida.
Indi à la moglie sua le luci volse,
Ch’insino al ciel facea sentir le strida.
E, perche ’l duol di lei troppo le dolse,
A lei la nuntia sua mandò per guida,
Che la scorgesse à la celeste corte
Per far, c’havesse un Dio nel ciel consorte.
Per l’arco vario, e bello Iri discende
A ritrovar la misera Regina,
Poi fa, che queste piè parole intende
Da parte de la corte alta, e divina.
Ó vero honor d’ogni alma, che dipende
Da la stirpe magnanima Sabina,
Scaccia, ò splendor del Latio unico, e solo,
Da gli occhi il lagrimar, dal core il duolo.
Se ti fe degna il tuo cor santo, e pio
D’haver con tanto Re comune il letto;
Oggi degna ti fa d’havere un Dio
Consorte nel celeste alto ricetto.
Sappi, che ’l tuo consorte al ciel salio,
E sù fra gli altri Dei Quirino è detto.
La Dea de la contrada alma, e gioiosa
Vuol, ch’anchora di lui là sù sia sposa.
Si che dal petto ogni dolor disgombra,
E se ’l brami veder, vienne hora meco;
Dove il bosco Quirin quel tempio adombra,
Che nel medesmo colle egli havrà teco.
Hersilia con le man l’occhio s’adombra,
Ch’à quel tanto splendor non venga cieco;
A parlar tutta humil poi s’assicura,
E cosi scopre à lei l’interna cura.
Ó Dea (che se ben io non sò dir quale,
Pur, che sei vera Dea, conosco certo)
Fammi il marito mio fatto immortale
Veder per gratia tua, non per mio merto.
Che s’un sol tratto il mio destin fatale
Me ’l mostra, il ciel veder parrammi aperto.
In quanto à me la Dea del ciel faccia ella,
Ch’io sarò sempre obediente ancella.