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secondo. 20

Deh non potevi senza fulminarlo
     Rapirlo dal bel carro, ove sedea?
     E tal nel tuo superbo imperio farlo,
     Qual meritava l’animo, c’havea?
     Molto maggior’honor t’era essaltarlo,
     Per lo spirto divin, che in lui splendea.
     Ben potevi schivar quel gran periglio,
     E non mi tor sì generoso figlio.

Questa nobile idea sublime, e degna,
     A cui, figliuol, tutto ’l mondo era poco,
     Può star, ch’un picciol sasso hor chiuda, e tegna?
     E caper possa in così stretto loco?
     Ahi saetta mortifera, et indegna,
     Ahi crudo ingrato, e sconoscente foco,
     Ch’osasti à sì bell’alma arder la scorza,
     Che nota fe la tua possanza, e forza.

Le sue dolenti affettuose note
     Con mesti, e gratiosi atti accompagna.
     Si straccia i crini, e si graffia le gote,
     E con tal maestà si dole, e lagna,
     Che movere à pietà d’intorno puote
     Le rive, i monti, i boschi, e la campagna.
     E tanto il Pò ne pianse, e se ne dolse,
     Che l’acqua racquistò, che ’l Sol gli tolse.

Ogni sorella di Fetonte, e figlia
     Del Sol, non men di Climene si dole.
     Si graffia, si percote, e si scapiglia,
     Et empie il ciel di pianto, e di parole.
     Questa alza al ciel le ruggiadose ciglia,
     E quando incolpa Giove, e quando il Sole:
     Quella sopra il sepolcro si distende,
     E chiama il frate in van, che non l’intende.

La terza stanca al fin s’asside in terra,
     Le man commette, e ’n seno asconde il viso,
     E fra le braccia il muto capo serra
     Col pensiero al fratello intento, e fiso.
     Stavvi un gran pezzo, e poi le man disserra,
     E rompe quel silentio à l’improviso;
     Si graffia, e straccia, e le man batte, e stride,
     Fin che di novo si stanca, e s’asside.

Passando van d’un in un’altro gesto,
     D’un in un’altro gemito, e lamento,
     Et ad ogni atto gratioso, e mesto
     Danno un soave, e doloroso accento.
     Passan di novo poi di quello in questo,
     Dove le move, e sprona il lor tormento,
     E tutti indicio manifesto fanno
     Del crudel caso, e del dolor, che n’hanno.

Quattro volte scoperte, e quattro ascose
     La Luna havea le luminose corna;
     Da quattro segni havea di gigli, e rose
     L’Aurora innanzi al Sol la terra adorna;
     Cento, e più volte havea tutte le cose
     Scoperto il biondo Dio, che ’l mondo aggiorna;
     E quelle per lungo habito, e costume
     Anchor piangeano il mal rettor del lume.

Stanca Fetusa, la maggior sirocchia
     Pensa sedersi, e trova l’infelice
     Le giunture indurate, e le ginocchia,
     Ne come prima più seder le lice.
     Lampetie andar vi vuol, che questo adocchia,
     Ma la ritiene insolita radice.
     Crede l’altra stracciar le chiome bionde,
     E si trova le man piene di fronde.

Chi si duol, che non può con ogni forza
     Piegar le gambe, over girar la faccia:
     Chi che virtute insolita già sforza
     Farsi due lunghi rami ambe le braccia.
     Veggono intanto una più dura scorza,
     Che ’l corpo loro à poco à poco abbraccia.
     Sol restava la voce, e ’l mesto viso,
     Con cui ne diero à la lor madre aviso.

Hor che può far la sconsolata, e mesta
     Che sì strano spettacolo rimira?
     Et à le figlie vede un’altra vesta,
     Se non andar dove il furor la tira?
     Corre, e soccorrer vuole hor quella, hor questa,
     Vuol far, ne sa, che farsi, e pur s’aggira;
     Guarda, e non vede cosa in quel contorno
     Da torle quel novello arbor d’intorno.