Deh non potevi senza fulminarlo
Rapirlo dal bel carro, ove sedea?
E tal nel tuo superbo imperio farlo,
Qual meritava l’animo, c’havea?
Molto maggior’honor t’era essaltarlo,
Per lo spirto divin, che in lui splendea.
Ben potevi schivar quel gran periglio,
E non mi tor sì generoso figlio.
Questa nobile idea sublime, e degna,
A cui, figliuol, tutto ’l mondo era poco,
Può star, ch’un picciol sasso hor chiuda, e tegna?
E caper possa in così stretto loco?
Ahi saetta mortifera, et indegna,
Ahi crudo ingrato, e sconoscente foco,
Ch’osasti à sì bell’alma arder la scorza,
Che nota fe la tua possanza, e forza.
Le sue dolenti affettuose note
Con mesti, e gratiosi atti accompagna.
Si straccia i crini, e si graffia le gote,
E con tal maestà si dole, e lagna,
Che movere à pietà d’intorno puote
Le rive, i monti, i boschi, e la campagna.
E tanto il Pò ne pianse, e se ne dolse,
Che l’acqua racquistò, che ’l Sol gli tolse.
Ogni sorella di Fetonte, e figlia
Del Sol, non men di Climene si dole.
Si graffia, si percote, e si scapiglia,
Et empie il ciel di pianto, e di parole.
Questa alza al ciel le ruggiadose ciglia,
E quando incolpa Giove, e quando il Sole:
Quella sopra il sepolcro si distende,
E chiama il frate in van, che non l’intende.
La terza stanca al fin s’asside in terra,
Le man commette, e ’n seno asconde il viso,
E fra le braccia il muto capo serra
Col pensiero al fratello intento, e fiso.
Stavvi un gran pezzo, e poi le man disserra,
E rompe quel silentio à l’improviso;
Si graffia, e straccia, e le man batte, e stride,
Fin che di novo si stanca, e s’asside.
Passando van d’un in un’altro gesto,
D’un in un’altro gemito, e lamento,
Et ad ogni atto gratioso, e mesto
Danno un soave, e doloroso accento.
Passan di novo poi di quello in questo,
Dove le move, e sprona il lor tormento,
E tutti indicio manifesto fanno
Del crudel caso, e del dolor, che n’hanno.
Quattro volte scoperte, e quattro ascose
La Luna havea le luminose corna;
Da quattro segni havea di gigli, e rose
L’Aurora innanzi al Sol la terra adorna;
Cento, e più volte havea tutte le cose
Scoperto il biondo Dio, che ’l mondo aggiorna;
E quelle per lungo habito, e costume
Anchor piangeano il mal rettor del lume.
Stanca Fetusa, la maggior sirocchia
Pensa sedersi, e trova l’infelice
Le giunture indurate, e le ginocchia,
Ne come prima più seder le lice.
Lampetie andar vi vuol, che questo adocchia,
Ma la ritiene insolita radice.
Crede l’altra stracciar le chiome bionde,
E si trova le man piene di fronde.
Chi si duol, che non può con ogni forza
Piegar le gambe, over girar la faccia:
Chi che virtute insolita già sforza
Farsi due lunghi rami ambe le braccia.
Veggono intanto una più dura scorza,
Che ’l corpo loro à poco à poco abbraccia.
Sol restava la voce, e ’l mesto viso,
Con cui ne diero à la lor madre aviso.
Hor che può far la sconsolata, e mesta
Che sì strano spettacolo rimira?
Et à le figlie vede un’altra vesta,
Se non andar dove il furor la tira?
Corre, e soccorrer vuole hor quella, hor questa,
Vuol far, ne sa, che farsi, e pur s’aggira;
Guarda, e non vede cosa in quel contorno
Da torle quel novello arbor d’intorno.