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quartodecimo. 249

Tal volta in una inutil pianta innesta
     D’un tronco illustre un tenero vinciglio.
     Lieta l’ignobil balia il latte impresta
     Al nobil, ch’à nutrir gliè dato, figlio.
     Che se l’anno primier vivo le resta,
     E d’un caldo, e d’un giel fugge il periglio,
     Co ’l frutto, che farà dolce, e felice,
     Farà nobile anchor la sua nutrice.

Se ’l caldo fa troppo arida la terra,
     Perche de l’alma gli arbori non privi,
     In piccioli canali i fonti serra,
     E fa vicino à lor correre i rivi.
     E con l’acqua, che penetra sotterra,
     Mantien gli arbori suoi fecondi, e vivi.
     Ogni sua cura, ogni suo studio è inteso
     A far, che l’arbor suo non venga offeso.

Lo stral d’Amor, gli altrui sguardi soavi
     Non le poter giamai far caldo il petto;
     Ma come fosser tutti ingiusti, e pravi
     Havea sempre de gli huomini sospetto.
     Però con varie porte, e stanghe, e chiavi
     Tenne sempre ad ogn’huom l’horto interdetto.
     Ad alcun huom non mai commodo diede,
     Che potesse formarvi orma co ’l piede.

I Satiri, Sileni, e gli altri Dei,
     Che di pino, e corona ornan le corna,
     Che cosa non oprar per goder lei,
     Di si rare bellezze, e gratie adorna?
     Vertunno anche ama i suoi dolci himenei,
     E in mille forme à riverderla torna.
     Più d’ogn’un l’ama, e poi che non può farla
     Sua sposa, mille vie tien per mirarla.

S’era la casta Dea saggia, et accorta
     Al lascivo mirar di questo Dio,
     Et à più d’un segnal più volte accorta,
     Ch’ardea de l’amoroso suo desio.
     Però quand’ella uscia fuor de la porta
     De l’horto, ò de l’albergo suo natio,
     Se l’incontrava, il piènon havea tardo
     A fuggir dal suo lascivo sguardo.

L’innamorato Dio poi che non puote
     (Come saria il desio) farla sua moglie,
     Mirare almeno i begli occhi, e le gote
     Brama, e per cio varie sembianze toglie.
     La bella Dea, cui son del tutto ignote
     Le fraudi sue, le sue mentite spoglie,
     Mentre innanzi à lo Dio bugiardo passa,
     Senza sospetto alcun mirar si lassa.

Per dare effetto al suo lascivo fine,
     Talvolta un metitor lo Dio si finse,
     E d’ariste novelle ornato il crine
     Segò le spighe, e in fascio indi le strinse.
     S’armò d’arme leggiadre, e pellegrine,
     E sopra l’arme poi la spada cinse.
     E per farla fermar, come guerriero,
     Fe far varij maneggi al suo destriero.

La maggior falce anchor talvolta prende,
     E l’incolpevoli herbe uccide, e sega,
     Indi al più caldo Sol le volta, e stende,
     E dopo il fien co ’l fieno unisce, e lega.
     E intanto accortamente il guardo intende
     Ver lei, che la sua vista non gli nega.
     L’hamo prende tal’hor, l’esca, e la canna,
     E la Ninfa in un punto, e ’l pesce inganna.

Bifolco, e potator d’arbori, e vigne
     Talhor se l’appresenta: ella se ’l crede.
     Di voler corre à lei le poma finge,
     E con la scala in collo la richiede.
     Di mille, e mille forme si dipigne,
     E in mille modi la vagheggia, e vede.
     Cosi l’acceso Dio cangiando aspetto
     Mira la bella Dea senza sospetto.

Al fine in una vecchia si trasforma,
     Spargendo di canicie il volto, e ’l pelo,
     E dà conveniente à questa forma
     L’ornamento, il color, la gonna, e ’l velo.
     Con un baston, di lei poi segue l’orma:
     E per dar loco à l’amoroso zelo
     Entra ne l’horto, et à la Ninfa bella
     Fa balba, e pigra udir questa favella.