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quartodecimo. 247

Mentre prendeano un dì su ’l mezzo giorno
     Con la voce, e co ’l suon vario diletto,
     Un malvagio pastor di quel contorno
     Vi venne per suo male à dar di petto.
     E cominciò dir loro oltraggio, e scorno,
     A far loro ogni noia, ogni dispetto.
     Le Ninfe da principio hebber terrore,
     E fuggir via dal rozzo empio pastore.

Ma come tornan poi ne la lor mente,
     E veggon, ch’un vil’huom lor dà la caccia,
     Conto non fan del suo dir insolente,
     Se bene anchor lontan grida, e minaccia.
     Tornando à cantar poi soavemente,
     Un ballo fan, ch’un largo giro abbraccia;
     Girare intorno il rio pastor le vede,
     Et accordar co ’l tempo il canto, e ’l piede.

Anchor con ogni sorta di rampogna
     Il rio pastor d’Apulia le flagella.
     Dice loro ogni infamia, ogni vergogna,
     Et addita, et infama hor questa, hor quella.
     Finge con bocca il suon de la sampogna,
     E poi, beffando lor, canta, e saltella.
     Danzando anch’egli in giro hor basso, hor alto,
     Per burla il canto loro imita, e ’l salto.

Finge il suon, move il canto, il salto, e ’l riso,
     Le scherne, e torce in più guise la bocca;
     Ogni altra infamia lor dice su ’l viso
     Con favella, e maniera oscena, e sciocca.
     Vedendo il ballo lor tanto deriso
     Una di lor con una verga il tocca;
     Intanto il verso à ciò propitio dice,
     E fa, che forma in terra una radice.

Di nuovo il suono, il salto, e la parola
     Per derider le Dee mover voleva,
     Ma la radice al piede il moto invola,
     E ’l legno, che l’indura, e che l’aggreva.
     L’arbor s’inalza, e già chiude la gola,
     E la parola, e ’l respirar gli leva.
     I rami già l’han fatto arbore in tutto,
     Et hoggi anchora amaro ha il succo, e ’l frutto.

In un momento un’olivastro appare
     Innanzi à gli occhi à le derise Dive.
     L’asprezza de le sue parole amare
     Nelle sue trapassò picciole olive.
     L’ambasciator di Turno, che tornare
     Brama al suo Re con le risposte Argive,
     Lascia quei campi, e giunge, e fa palese
     La scusa al suo Signor del Re Pugliese.

Se ben soccorso i Rutuli non hanno
     (Come credeano haver) dal Re Tidide
     Con grande ardir però la guerra fanno,
     Se ben la sorte à lor non molto arride.
     Tinti di sangue al mare i fiumi vanno
     Per l’infinito popol, che s’uccide.
     Parturisce ogni campo ardito, e forte
     Pianto, grido, terror, miseria, e morte.

Ecco, che Turno un giorno il foco accende,
     Indi l’appicca à le Troiane navi,
     E di bruciarle in ogni modo intende,
     Anchor che l’onda le circondi, e lavi.
     Già per gire à l’antenne il foco ascende,
     E poggia al ciel per l’elevate travi;
     Già la pece, e la cera arde, e consume,
     E maggior sempre fa splendere il lume.

Fuman le navi afflitte in ogni loco
     Ne la prua, ne la poppa, e ne le sponde.
     Teme hoggi quel Troian morir nel foco,
     Ch’altre volte temea morir ne l’onde.
     Per gli alti gridi ogni nocchier vien roco,
     Che vuol prender riparo, e non sà donde,
     Che s’egli ne la poppa il foco ammorza,
     Vede, che ne la prora alza, e rafforza.

A tanto foco, e mal volge la luce
     A caso la gran madre de gli Dei;
     E gli arbori avampar mira del Duce
     Troian, che nacque già ne i colli Idei.
     Folle è (disse) il desio, che ti conduce,
     Turno, à bruciare i sacri boschi miei.
     Non vò, che la sacrilega tua destra
     Arda la sacra mia pianta silvestra.