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quartodecimo. 246

Quanta seguì pietà, quanto cordoglio
     D’un pezzo innanzi à l’hora matutina,
     Quando cacciati dal rabbioso orgoglio
     Del vento, e de la cruda onda marina:
     Tanti navilij urtar nel duro scoglio,
     Per dare à Greci l’ultima ruina,
     Del monte Cafareo, che fe tal clade,
     C’havrebbe Priamo anchor mosso à pietade.

E per non riferirti ogni partita
     Di tanti, che soffrimmo oltraggi, e danni,
     Parve à Minerva à me porgere aita,
     Per riserbarmi à più noiosi affanni.
     Che m’allungò co ’l mantenermi in vita
     Il pianto, e le miserie à par de gli anni.
     Ben meglio era per me d’haver la morte,
     Che giunger vivo à le paterne porte.

Che Venere in memoria anchora havea
     Che del suo sangue io già le sparsi il manto,
     Quando ella aiuto dar volle ad Enea,
     Che meco combattea su ’l fiume Xanto.
     E, perche vendicarsene intendea,
     Mi pose à la mia moglie in odio tanto,
     Che fè, che in casa io non fui ricevuto,
     Per l’honor mio del resto io vò star muto.

Scacciato dal mio regno errando andai,
     E sempre la fortuna hebbi più acerba,
     Che la sdegnata Dea, che già piagai,
     Ogn’hor mi fu più cruda, e più superba.
     ln qual si voglia parte, ove smontai,
     Far vidi à popol mio sanguigna l’herba.
     La Dea Ciprigna à farne guerra accese
     Per tutto ogni militia, ogni paese.

La guerra poi, che dal mare, e dal vento
     Hebbi con gli altri miei fedeli amici,
     Io no ’l saprei ridir, ch’anchor pavento,
     Di tanti casi miseri, e infelici.
     Tanto stratio provai, tanto tormento
     Che sovente color chiamai felici,
     Cui fece il Cafareo l’ultimo torto,
     E mi dolea, ch’anch’io non vi fui morto.

Già quasi ogn’un dicea d’abbandonarme,
     Sofferto havendo l’ultime fatiche,
     Vedendo, che di me le forze, e l’arme
     Le Dee del cielo havean troppo nemiche.
     E molti, ch’era ben, volean mostrarme
     Di tornare à goder le patrie antiche,
     E starvi (e non curarsi d’altri honori)
     Vassalli almen, se non potean Signori.

Fra gli altri un cavalier di gran coraggio,
     Aspro nel guerreggiar, caldo d’ingegno,
     Disse. Deh qual può farci onta, et oltraggio
     Questa troppo empia Dea del Ciprio regno,
     Che di quel danno star possa al paraggio,
     C’habbiam fin hor sofferto dal suo sdegno?
     Non sia chi più di lei s’habbia timore,
     Ch’ella n’ha fatto il mal, che può maggiore.

Se non ha fatto à noi sentir la morte,
     Sicuro io son, ch’ella non ha potuto,
     Che qualche Dio de la celeste corte
     Particolar di noi conto ha tenuto.
     Non possiam peggiorar fortuna, ò sorte,
     Poi c’habbiam qualche Dio per nostro aiuto.
     Perseguane, se sa, crepi di rabbia,
     Peggio non ne può far, che fatto n’habbia.

Crediam d’haver sofferto il maggior danno,
     Che può sopra di noi mandare il cielo:
     Che mentre un dì maggior dubita affanno,
     Forz’è, che volga à voti il core, e ’l zelo.
     Ma quei, che stanno invitti, e che non fanno
     A colpi di fortuna il cor di gielo,
     Mostran forza di cor, mostran virtute,
     E ’l non temer di peggio è lor salute.

Faccia, se sà, la Dea, che n’odia, e fiede,
     Con la sua cruda sferza in mare, e in terra:
     Non farà mai, ch’appresso à Diomede
     Tema l’odio di lei, ne l’altrui guerra.
     In questo Duca invitto ho tanta fede,
     Ch’ogni ragion contraria in tutto atterra.
     Non vò temer, mentre ho si fida scorta,
     Ne ’l poter suo, ne l’odio, che ne porta.