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Non porge alcun ristoro, e non raffranca
     Ó co’l sonno, ò co’l cibo la natura;
     Ma debil se ne stà pallida, e bianca,
     E de la vita sua punto non cura.
     Talhor la voce alzando afflitta, e stanca,
     Canta con verso pio la sua sciagura.
     Imita in questo il Cigno, e la sua sorte,
     Che canta, s’appressar sente la morte.

Per lo continuo sospirar suo tanto
     La Ninfa venne in modo à consumarsi,
     Che l’infelice suo terreno manto
     Tutto in aure, e sospir venne à disfarsi.
     La ripa, ov’ella diè l’ultimo pianto,
     Dal dolce nome suo fe poi nomarsi.
     Sempre dapoi la Tiberina gente
     Quel luogo, ove sparì, chiamò Canente.

Queste, e molte altre cose intesi, e scorsi,
     Mentre stei per un’ anno in quella parte;
     Quindi venimmo poi di novo à torsi,
     À por di novo in opra antenne, e sarte.
     Io, che de i gran pericoli m’accorsi,
     C’havea di Circe à noi predetti l’arte,
     Ch’incorrer si dovean per l’ampio mare,
     Come fui giunto quì, non volli andare.

Dapoi che Macareo tutto hebbe detto
     Al prudente Troiano il rio destino
     Di Canente, e del Re, da ’l qual fu retto
     Quel popol, che fu poi detto Sutrino:
     Enea nova pietà sentì nel petto,
     Che giunta al fin del suo mortal camino
     Vide la sua nutrice, e i ricchi marmi
     Notò, che lei coprir con questi carmi.

Quel, ch’ io co’l latte mio mantenni vivo,
     Quando dal sen Venereo al mondo apparse,
     Me nomata Caieta al foco Argivo
     Tolse, e co’l foco debito qui m’arse.
     Come il mio corpo poi fu in tutto privo
     Di carne, e in poca cenere si sparse;
     Qui mi fe porre, e ver la sua Caieta
     Volle sempre mostrar la stessa piéta.

Mostrata Enea la solita pietate,
     E fatto il santo officio al corpo morto,
     Le funi, che su’l porto eran legate,
     Fa sciorre, e con buon vento esce del porto.
     E lunge và da le maligne fate,
     Et assicura se dal mago torto.
     Scorre il Tirreno, e fa l’ultima scala,
     Dove l’acqua del Tevere s’insala.

Quivi Enea da Latin con lieto volto,
     Figliuol di Fauno, e Re di Laurenti,
     Fu con gran cortesia visto, e raccolto,
     Con tutte l’altre sue Troiane genti .
     Dove tanto s’amar, che non ster molto,
     Che voller rinovar d’ esser parenti.
     Che l’avo di Latino hebbe per padre
     Saturno, ch’ad Enea formò la madre.

D’Amata, e di Latin Lavinia nacque,
     Leggiadra sopra ogni altra, e gratiosa.
     Vista che l’hebbe il buon Troian gli piacque,
     Ne la sua volontà ritenne ascosa.
     La chiese al padre, et ei glie la compiacque,
     E co’l voler del ciel la fe sua sposa.
     Suppliro à quanto havea risposto il fato,
     E rinovar l’antico parentato.

Ma non potè la moglie amata, e bella
     Godere in pace il novo sposo Enea.
     Che ’l padre molto prima la donzella
     Promessa in matrimonio à Turno havea.
     E di morir dispostosi, ò d’havella,
     Per la ragion, che su vi pretendea,
     I Rutuli armar fece in uno instante,
     Contra il forte Enea gli spinse avante.

Da l’altro lato il buon Troian procura
     Con l’arme, con la forza, e con l’ ingegno
     Di far la sua militia si sicura,
     Che vaglia più, che l’ inimico sdegno.
     Però questo, e quel Re pone ogni cura
     Di farsi amico ogni propinquo regno.
     Per accrescer le forze instiga, e prega
     Chi questo Re, chi quello, e seco il lega.