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quartodecimo. 241

Il terzo cavalier, che non ben corse,
     Il mostro più veloce aggiunse, e prese.
     E poi che in ogni membro ingordo il morse,
     Lo strido alzò, ch’insino al ciel s’intese.
     Ogni altro Lestrigon ver lui concorse,
     Ogn’altro seco à più poter n’offese.
     N’aventaro empi e sassi, e dardi, e travi,
     E dier la fuga à le Spartane navi.

Gli empi mandaro undici navi al fondo
     Co i sassi senza fin, che n’aventaro.
     E di tanti privaro huomini il mondo,
     Quanti n’eran su i legni, ch’affondaro.
     Più il ciel solo un navilio hebbe secondo,
     Alqual gli scogli lor non arrivaro:
     Quel legno sol da l’arme lor fuggio,
     Sopra il qual ne salvammo Ulisse, et io.

Da poi che quei si feri empi nemici
     Ne fer sentir si doloroso Marte,
     Perduti havendo miseri, e infelici
     De’ tuoi compagni, e miei la maggior parte;
     Fuggimmo in quelle misere pendici,
     Che scorger puoi lontan da questa parte.
     Mira ver dove addita hor la mia mano,
     Che da veder quel luogo è da lontano.

E tu Troian giustissimo, che scendi
     Da la più bella in ciel gradita Diva,
     In questa parte il mio consiglio prendi,
     Non t’accostar co ’l legno à quella riva,
     Che t’inganni d’assai, s’hor forse intendi,
     Che sia nemica à te la gente Argiva.
     La guerra è già finita: e in questo essiglio
     Da vero amico t’amo, e ti consiglio.

Fuggi pur da quel monte, ch’io ti mostro,
     Se d’esser quel, che sei, t’è punto grato,
     Se non ti brami far d’un’huomo un mostro,
     Se ’l mal non vuoi provar, ch’io v’ho provato.
     In quel porto infelice il legno nostro
     Diè fondo, come piacque al crudo fato.
     Dove tale infortunio à tutti avenne,
     Che di maggior non mai scrisser le penne.

E se ben ne salvò da tanto horrore
     Del nostro Duce il senno, e la prudenza,
     Non però gire à far del tuo valore
     In cosi gran periglio esperienza.
     Perche se non havea dal ciel favore,
     Restava anch’ei de la sua forma senza,
     E staremmo in quel bosco ombroso, e folto,
     Passando i nostri dì sott’altro volto.

Dapoi che ’l nostro legno entrò nel porto,
     Temea di noi smontare in terra ognuno,
     C’havean del Lestrigone il grave torto
     In mente, e del Ciclopo empio, e importuno.
     Vedendo questo al nostro Duca accorto
     Di trarne à sorte fuor parve opportuno.
     Che fean mestiero al nostro legno afflitto
     Diverse cose necessarie al vitto.

Fra primi sopra me cadde la sorte,
     Indi uscì meco Euriloco, e Polite,
     Diciotto andammo à le temute porte,
     Per novo mal di queste afflitte vite.
     Là dove ritrovammo entro à la corte,
     Esser tant’empie belve insieme unite,
     Lupi, tigri, pantere, orsi, e leoni,
     Che ne fer più terror, che i Lestrigoni.

Pur se ben cosi fero, e crudo obbietto
     Giusta cagion ne dava da temere,
     Non era da temer per quel rispetto,
     Che poco appresso ti farò sapere.
     Venner tutti ver noi con dolce affetto
     Gli orsi, i lupi, i leoni, e le pantere,
     E ’l mover de la coda, e ’l volto lieto
     Mostrar l’humanità del cor secreto.

Circe la dotta, e incomparabil fata
     Per proprio albergo elette ha quelle mura.
     Le serve n’incontraro in su l’entrata,
     E promisero à noi la via sicura.
     Seguendo noi la fe, che ne fu data,
     N’andammo, non però senza paura
     Di quei mostri non noti, ò d’altro male,
     Vedemmo al fin la donna empia, e fatale.