L’alma gran Terra, ch’è cinta dal mare,
Non può vetar, che ’l foco empio non entre
Dove son seco ritirati à stare
I fonti nel materno ombroso ventre.
Alza il fruttifer volto per parlare,
Oppon la mano à l’arsa fronte; e mentre
Vuol dir, trema, e si move; e gir si lassa
Più, che star non solea, terrena, e bassa.
Poi disse con parlar tremante, e fioco,
Ó gran Dio de gli Dei, che pensi farmi;
Se ti par, che perir merti di foco,
Fà, che dal foco tuo senta bruciarmi;
Aventa il folgor tuo, che ’l duol non poco,
Se tu l’auttor sarai, vedrò mancarmi.
Che ’l mal non mi parrà, che sì m’annoi,
Se questo tu farai, che ’l tutto puoi.
Perche sì crudo, et empio hoggi il Sol viene,
Che meco i dolci figli arde, e consuma?
Perche non fa quel, ch’à lui si conviene,
Ne il mondo come pria scalda, et alluma?
Perche fa quel, ch’à te sol s’appartiene?
Com’esser può, che tanto ei si presuma?
Che faccia à tutto ’l mondo sì gran torti,
E tu presente il vegga, e te’l comporti.
Oime, che à pena la mia debil voce
Nel mio flebil parlar risolver posso,
Impedita dal foco, che mi coce
Il mio già lieto volto, e tutto ’l dosso;
Il qual non solo in quel, ch’appar, mi noce,
Ma strugge dentro la medolla, e l’osso.
Guarda gli arsi capei, l’arsiccia pelle
De le già membra mie sì vaghe, e belle.
È questo il guiderdone, è questo il frutto?
Dunque i miei premij, i miei merti son tali?
De la fertilità, ch’io fo per tutto
Di fior, d’herbe, di frutti, e d’animali,
Ch’ogni anno hò il corpo lacero, e distrutto
Dal crudo aratro, e da gli empi mortali.
Nutrisco piante, augei, montoni, e buoi,
E fò le biade à l’huom, l’incensi à voi.
È dunque ben, che per premio, e per merto
Di convertirmi in cener ne consegua?
Or sù poniam per qualche mio demerto,
Che ’l crudel foco m’arda, e mi persegua,
C’ha fatto il tuo fratel, che sta coperto
In mezzo à l’Oceano, e si dilegua?
Che ’l batte il Sol sì pertinace, e duro,
Ch’in mezzo à l’onde sue non è sicuro.
Perche gli manca il mar? perche discresce
Quel gran regno, ch’à lui toccò per sorte?
Perche gli uccide il suo gregge, il suo pesce
Il più superbo Dio de la tua corte?
Hor se di me, ne di lui non t’incresce,
E giudichi ambedue degni di morte,
Deh movati il tuo ciel, deh guarda intorno
Come l’infoca il portator del giorno.
Deh gran rettor del ciel provedi innante,
Che ’l tuo ciel cada, à quelle fiamme sparte,
Ch’à te brucian le stelle, à me le piante,
E fan già rosso il cielo in ogni parte,
E cuocon sì le spalle al vecchio Atlante,
Che lascierà cader Mercurio, e Marte,
E te, se i poli il foco arde, e consuma;
E vedi ben, che l’uno, e l’altro fuma.
Perche non pera il ciel, la terra, e ’l mare,
Ne torniam, come pria, tutti in confuso,
Salva dal foco quel, che puoi salvare,
E riserva le cose à miglior’uso.
Il vapor non potè più sopportare
La terra, e ’l volto in se medesma chiuso
Si ristrinse nel suo luogo più interno,
Presso al già buio, hor luminoso inferno.
Mosso dal giusto priego il Re celeste
Tutto chiamò per testimonio il cielo,
E quel, che diede il carro, e quella veste,
Che sforza l’auree stelle à porsi il velo,
E mostrando le fiamme ingorde, e preste,
Che fa nel mondo il distruttor del gielo,
Disse: arderà, se da noi gli è permesso,
La Terra, il Cielo, il Mar, l’Aria, e se stesso.