Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/487


quartodecimo. 238

L’isola de le Simie à dietro lassa
     Il Frigio Duce, e scorre il mar Tirreno;
     Vede poi da man destra in breve, e passa
     Il sen Partenopeo vago, et ameno.
     Vede à man manca il loco, ov’è la cassa
     De le ceneri illustri di Miseno;
     Poi giunge à Cuma, e di veder conchiude
     L’antro, che la Sibilla asconde, e chiude.

Spronato da pensier pietoso, e santo
     Entra ne la profonda atra caverna,
     E prega lei, che fra l’eterno pianto
     La scorga à visitar l’ombra paterna.
     Ella tien gli occhi in giù chinati alquanto
     Pria, che dar voglia fuor la sorte interna:
     Ma poi, che ’l fatal Dio l’infiammò il petto,
     Alzò con questo suon ver lui l’aspetto.

Ó magnanimo Enea, pietoso, e forte,
     Che la pietà mostrasti in mezzo al foco,
     Veder festi il valor con l’altrui morte,
     Co ’l ferro in man nel bellicoso gioco;
     Non permette ad ogn’un la fatal sorte,
     Di penetrare al più profondo loco,
     Il suo camino è disperato in tutto,
     Pur la virtù si fa la via per tutto.

Vedrai l’inferno, et io sarò tua scorta,
     Si ch’ovunque vad’io, movi le piante.
     E fà, che seco in parte si trasporta,
     Dov’è un tronco fatal fra molte piante.
     Già mostra un ramo d’oro, e poi l’essorta,
     Che co ’l proprio valor quindi lo schiante.
     Enea toglie quel ramo al fatal piede,
     E co ’l favor di lui l’inferno vede.

Vide del formidabile Plutone
     Le sepolte ricchezze, et infinite,
     Le pene, che diverse han le persone
     Dal tribunal de la città di Dite.
     Anchise poi fra l’ombre elette, e buone
     Vide, e l’illustri, e gloriose vite
     De suoi nipoti, il cui fato secondo
     Dovea l’imperio à lor donar del mondo.

Poi c’hebbe il padre Enea visto, et inteso,
     Che i suoi dovean signoreggiar la terra,
     E quella, che dovea, nel Latio sceso
     Dal ciel soffrir predestinata guerra;
     Nei ritornarsi al dì chiaro, et acceso
     Per lo scuro camin, c’havea sotterra,
     Con una affettion devota, e fida
     Così parlò ver la sua saggia guida.

Alma, che vai de le risposte altera,
     Ond’è il futuro à noi da te predetto,
     Ó che Dea tu ti sia presente, e vera,
     Ó ch’à gli Dei tu sia spirto diletto,
     Mentre la parca rigida, e severa
     Terrà quest’alma unita à questo petto,
     Farotti come à Dea mai sempre honore,
     Sempre in bocca t’havrò, sempre nel core.

Tu m’hai mostrato il regno de la morte,
     E le contrade fortunate Elise,
     Tu m’hai fatto veder la fatal sorte
     De miei nipoti, tu l’ombra d’Anchise.
     E degno è ben che, come io mi trasporte
     Al regno, che già il fato mi promise,
     Drizzi al tuo Nume e tempij, e simulacri,
     E che la vita propria io ti consacri.

La fatal donna al fin di queste note
     Dà l’occhio al buon Troian devoto e fido,
     E d’un caldo sospiro il ciel percote,
     Poi scopre il mesto cor con questo grido.
     Sacra à la Dea le statue alme, e devote,
     Che ti diè nel suo seno il primo nido:
     Ch’io son mortale, e questo corpo fia
     Tosto di terra anch’ei per colpa mia.

Febo ne l’età mia più verde, e bella,
     Si come piacque al ciel, di me s’accese,
     E con faconda, e candida favella
     L’interno foco suo mi fe palese.
     Mi disse poi. Bellissima donzella,
     Cui fu di tante gratie il ciel cortese,
     Poi che m’ha preso il core il tuo bel guardo,
     Habbi pietà del foco, ond’io tutt’ardo.