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terzodecimo. 234

Giunta la Ninfa à questo punto prende
     Comiato, e in mezzo al mar salta, e s’asconde.
     Scilla restando, in alto i lumi intende,
     E vede, ch’un ne vien fendendo l’onde.
     Come ei finisce il nuoto, e in terra scende,
     E vede le bellezze alme, e gioconde,
     Subito n’arde: e fu l’amor suo tanto,
     Ch’à lei fece biforme il carnal manto.

Felice lei, se Galatea quel giorno
     Lei non havesse tanto trattenuta,
     Che s’ivi non facea tanto soggiorno,
     Forse che non l’havria quel Dio veduta.
     Ne tal seguito à lei ne saria scorno,
     Di vestirsi d’un can la pelle hirsuta.
     A Glauco piacque il suo volto divino,
     Che fu pur dianzi Dio fatto marino.

Co ’l più soave affetuoso accento,
     Che più puote ad udir fermare altrui,
     Glauco le scopre il suo amoroso intento,
     E tutti ad uno ad uno i pregi sui.
     Non ode ella i suoi merti, e ’l suo lamento,
     Ma fugge più, che può, lontan da lui.
     Sopra un ripido monte al fine ascende,
     Che molto dentro in mar s’incurva, e pende.

Glauco, che crede, ch’ella ivi post’habbia
     Il piè, perche più tosto ami la morte,
     Più tosto darsi à la marina rabbia,
     Che consentir di farsi à lui consorte,
     Di nov’orma stampar sopra la sabbia
     Resta, e lontan da lei parla di sorte,
     Ch’ad udir pur alquanto ella si piega
     Quel, che lo Dio del mare espone, e spiega.

Ella si stà considerando intanto,
     Ne sà, se la biforme sua figura
     Sia mostro, over Nume immortale, e santo,
     E pure il brama udir, ne s’assicura.
     E mentre ei l’amor suo scopre, e ’l suo pianto,
     Con l’occhio, e co ’l pensiero ella il misura;
     E stà maravigliata, e parle strano
     Vedergli i piè di pesce, e ’l busto humano.

Ó vergine, le dice, unica al mondo
     Glauco non mi tener portento, ò mostro;
     Perch’io son Dio del mare alto, e profondo,
     Se ben l’aspetto mio biforme mostro.
     Ne men di Proteo, e di Tritone abondo
     D’imperio nel marin governo nostro.
     Fui ben mortal nel mondo un tempo anch’io,
     E ti vò dir, come divenni Dio.

Io nacqui già ne l’Euboica terra,
     E mentre ch’io godei mortale il giorno,
     Ó fei con gli hami à pesci eterna guerra,
     Ó lor con reti il mar cinsi d’intorno.
     Vicino al mare un bel prato si serra
     D’herbe, e di varij fior vago, et adorno.
     Ma s’ivi d’herbe, e fior la terra è piena,
     Fra il prato, e ’l mar v’è sol la pura arena.

L’herba tenera, verde, illustre, e folta
     Co’ fior di perle, di corallo, e d’oro
     Non havea falce, ò man secata, ò colta,
     Ne agnello humil pasciuta, ò altero toro;
     Ne l’ape accorta à fior l’ambrosia tolta
     Havea per darla al pubblico lavoro.
     Io fui colui, che pria quell’erbe offesi,
     Mentre le reti al Sol lì dentro tesi.

Per scegliere, come usa ogn’un, che pesca,
     Le varie prede mie di sorte in sorte,
     Quei pesci un dì versai su l’herba fresca,
     Che presa havea la maglia unita, e forte,
     E quei, che troppo havean creduto à l’esca,
     Che vi trovar la non pensata morte.
     Hor si grande stupor vò farti aperto,
     Che ti parrà, ch’io finga, e pur fu certo.

Tosto che ’l pesce in terra hebbi versato
     Già de la vita in tutto ignudo, e privo,
     E che venne à toccar l’herba del prato,
     Non passò d’un balen, che tornò vivo.
     Mentre io stupisco, come habbia acquistato
     Lo spirito informante, e sensitivo,
     A guisa d’una squadra il veggo unito,
     E ’l salto verso il mar drizzare al lito.