Mentre il Ciclopo rio scorre la costa,
Da l’ira spinto, e da la pena acerba,
Ver dove io mi giacea molto discosta,
Viene à girar la luce empia, e superba,
E vede me, ch’esser credea nascosta,
In grembo ad Aci mio, fra fiori, e l’herba.
Ben la sua voce allhor cruda, et altera
Passò, per quel, ch’udij, la nona sfera.
Tremò per troppo horrore Etna, e Tifeo
Fece maggior la fiamma uscir del monte.
E Pachino, e Peloro, e Lilibeo
Quasi attuffar nel mar l’altera fronte.
Cadde il martel di man nel monte Etneo
Al Re di Lenno, à Sterope, et à Bronte.
Fuggir fiere, et augei del lor ricetto,
E si strinse ogni madre il figlio al petto.
Vi veggio, risonò con mesto accento,
L’irato, horrendo, et orgoglioso grido:
Ma vò, che questo l’ultimo contento
Sia, che vi doni Venere, e Cupido.
Io, che l’altere sue minaccie sento,
Fuggo, e m’attuffo entro al paterno nido:
Aci, ch’al mio fuggir volge lo sguardo,
Fugge anch’ei verso il mar, ma vien più tardo.
Datemi (egli dicea) datemi aiuto,
Voi miei parenti, e tu fida compagna,
Si ch’à dar venga anch’io censo, e tributo
A la cerulea, e liquida campagna.
Presa in tanto il crudel, per darlo à Pluto
La cima in braccio havea d’una montagna,
E tutto à l’ira, e la vendetta inteso
Scagliò ver l’amor mio l’horribil peso.
Ben ch’un’angulo sol del grave scoglio
Ferisse l’infelice innamorato;
Fu per eterno mio pianto, e cordoglio
Tutto in un tempo morto, e sotterrato.
Io, ch’aiutarlo in quel, ch’io posso, voglio,
Fo co’ miei preghi, e co ’l favor del fato
A la coperta sua sanguigna scorza
Prender de l’avo suo la viva forza.
Purpureo il sangue uscir de la gran pietra
Si vede, e larga ogni hor crescer la vena.
Indi si cangia, e quel colore impetra,
Che ’l torbido torrente ha per la piena.
Lascia poi d’esser’acqua infame, e tetra,
E divien bella, lucida, e serena.
Quella pietra io percossi, ella s’aperse,
E l’acqua in maggior copia al mondo offerse.
Nel mezzo de la bocca il fonte bolle,
E intorno tuttavia cresce, e s’allaga.
La canna intanto, e ’l giunco il capo estolle,
E fa la sponda sua più illustre, e vaga.
Poi dove à l’onda par l’orlo più molle,
L’apre, e per gire al mar s’aggira, e vaga;
E corre mormorando ogni hora al chino
Per far con l’avo homaggio al Re marino.
Un bel giovane intanto in mezzo al fonte
Io veggio insino al petto apparir fuore,
Ch’ornata di due corna havea la fronte,
Di maestà ripiena, e di splendore.
Io riconobbi à le fattezze conte
Aci, se non che molto era maggiore.
Lucide havea le carni, e cristalline,
E di corona, e canne ornato il crine.
Dapoi, che fatto son per tua mercede,
Mi disse, d’huom mortal perpetuo fiume,
Ti prego, che lo stesso amore, e fede
Tu serbi Galatea verso il mio Nume.
Dapoi, ch’ogn’un l’ultime gratie diede,
Ascose entro al suo fonte il divin lume,
E mandò al mar le nove ondose some,
E d’Aci diè per sempre al fiume il nome.
Si che tu Scilla puoi ben contentarti,
S’Amore hor questo, hor quel fa tuo prigione;
Dapoi che fa da tali huomini amarti,
Che l’humana hanno in se forma, e ragione.
E se pur vuoi dal loro amor ritrarti,
Non però alcuno al tuo veder s’oppone:
Come fece Ciclopo empio, e tiranno,
Che fe quel, che potè per farmi danno.