Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/477

Fatta la madre lor de l’alma priva,
     E visti, e presi i suoi teneri figli,
     Dissi, vò serbar questi à la mia diva,
     E pregar lei, che in don da me gli pigli.
     La loro età tant’oltre non arriva,
     Che nuocano ò co’ denti, ò con gli artigli.
     Ne di scherzar si veggon mai satolli,
     Tanto son dolci, buffoncini, e folli.

Deh quel volto gentil, che ’l mar m’asconde,
     Discopri alquanto al mio cupido sguardo:
     E con le voglie al mio voler seconde,
     Il buono amore accetta, ond’ io tutt’ardo.
     Pur l’altro dì mi riguardai ne l’onde,
     Ne mi trovai men bello, che gagliardo.
     Mi rallegrai, mirandomi ne l’acque,
     Tanto del corpo mio l’ombra mi piacque.

Riguarda quanto io sia robusto, e quanto
     Sia grande à paragon de gli altri vivi.
     Nel regno, che chiamate eterno, e santo,
     Non so se Giove à tanta altezza arrivi.
     Voi dite pur, che porta il regio manto,
     Non so che Giove in ciel fra gli altri Divi.
     Riguarda il crine, e ’l mento hirsuto, e folto,
     Quanta dan gratia al capo, al tergo, e al volto.

Ne ti pensar, che ’l duro, e spesso vello,
     Che copre il corpo mio tutto d’intorno,
     Mi renda men spettabile, e men bello,
     Anzi mi fa più nobile, e più adorno.
     Deforme senza piume appar l’augello,
     E quando il Sol viene à far breve il giorno,
     Ogni arbor secco appar, che ’l verno crudo
     Restar de le sue foglie il face ignudo.

D’un’ occhio, come vedi, io mi contento,
     Ch’à par d’ un terso scudo arde, e risplende.
     E ben, che solo sia, mi val per cento,
     Tanto il suo giro, e sguardo oltre si stende.
     E lo Dio, ch’ogni cielo, ogni elemento
     Vede, e co’l lume suo lucido il rende,
     Discerne pur da l’uno à l’altro polo
     Co’l lume, ond’egli aggiorna, unico, e solo.

Aggiungi à tanto ben, che ’l padre mio
     Del vostro immenso mar possiede il regno;
     E vedi ben, se cedi al mio desio,
     Quanto il socero havrai superbo, e degno.
     Deh mostra il cor ver me benigno, e pio,
     Ver me, ch’anchor del ciel sprezzo lo sdegno.
     Io pur son quel, ch’a te sola m’ inchino,
     E sprezzo Giove, il folgore, e ’l destino.

Certo io non ti sarei tanto importuno,
     Vedrei di raffrenare il troppo affetto,
     Se tu spregiassi parimente ogn’uno,
     Quand’altro amor non t’ infiammasse il petto:
     Ma, perche scacci il figlio di Nettuno,
     Et Aci inviti al coniugal diletto?
     Perche, s’ io vengo à te, mi fuggi, e sprezzi?
     Et Aci, chiami dopo, Aci accarezzi?

Hor goda Aci di te, solo à te piaccia,
     Ch’io vò (se ben per tuo conto mi spiace)
     Che vegga, che ’l valor de le mie braccia
     À la grandezza mia ben si conface.
     S’avien, ch’ io trovi mai, ch’ei ti compiaccia
     Per tormi ogni mio bene, ogni mia pace
     Vò trargli ’l cor, vò mille pezzi farne,
     E à questi campi, e al mar dar la sua carne.

Deh moviti à pietà, mia diva, un poco,
     Ahi, che di tanto ardore il petto ho pieno,
     Che par, che ’l monte Etneo con tutto il foco
     Sia stato trasportato entro al mio seno.
     Deh lascia il mar ceruleo, e ’l patrio loco,
     E mostra il volto al ciel chiaro, e sereno.
     Ma tu con Aci tuo forse ti stai,
     Ne del mio amor ti cal, ne de miei guai.

Irato in questo altrove il camin prende,
     E la voce, e i sospiri alza di sorte,
     Che ’l mondo di qua giù non solo offende,
     Ma quello anchor de la celeste corte.
     Tal se ’l toro talhor vinto si rende,
     E cede la giuvenca al bue più forte,
     Se’n và in disparte, e mentre se’n ricorda,
     Il mondo co’l mugghiare, e ’l cielo assorda.