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terzodecimo. 231

Perche di Creta Teucro in Frigia venne,
     E ’l superbo Ilion cinse di muro:
     Che fosse Teucro il lor principio, tenne,
     Poi che Teucri da lui nomati furo.
     Però ver Creta fe drizzar l’antenne,
     Che, interpretando mal quel senso oscuro,
     Creta stimò la lor antica madre,
     Che non si ricordò del primo padre.

Dardano havea di già posto in oblio,
     Che pria d’ ltalia in Frigia si raccolse,
     E de l’Italia intese il biondo Dio,
     Quando à la patria lor mandar gli volse.
     In Creta andar, ma l’aere infame, e rio
     Con tanta peste à perseguirgli tolse,
     Che fur costretti andar senz’altra guerra
     A cercar nova patria, e nova terra.

Pensar poi meglio, e ritrovaro il vero
     Esser l’Italia la lor madre antica.
     E fer tosto drizzar ogni nocchiero
     Ver la terra fatal felice, e amica.
     Ma il vento, e ’l mar s’alzò superbo, e fero,
     E preser con travaglio, e con fatica
     De le Strofadi infami il crudo porto,
     Dove fer l’empie Harpie lor novo torto.

Fuggir poi de l’Harpie l’ingorda fame,
     E cercando per mar nova ventura,
     Lasciar Dulichio à dietro, Itaca, e Same,
     D’Ambracia poi le combattute mura,
     Per cui fecer gli Dei si gran certame.
     E nel passar di pietra alpestre, e dura
     Quel giudice in quel loco ritrovaro,
     Che per l’Attiaco Apollo al mondo è chiaro.

Vider (lasciato il sen d’Ambracia, e ascoso)
     Le selve Dodonee poco discoste,
     Dov’era quell’Oracolo famoso,
     Che dava in una quercia le risposte,
     Dapoi con l’occhio intento, e desioso
     Vider nel costeggiar l’istesse coste,
     Dove i figli vestir del Re Molosso,
     Per l’incendio fuggir, di penne il dosso.

Disprezza il popol Frigio l’oriente,
     E và ver dove il novo affetto il tira,
     E passa, mentre aspira à l’occidente,
     In mezzo fra Butroto, e fra Corcira.
     Giunge al fine in Sicilia, ove si sente
     Di Scilla, e di Cariddi il grido, e l’ira.
     E in quella patria Enea vuol, che si smonti,
     Che fiancheggiata in mar vien da tre monti.

Per far quel regno intrepido, e sicuro
     A guardar Lilibeo l’occaso ha tolto.
     Ver donde rende l’Austro, il mondo oscuro,
     Mostra Pachino à gl’inimici il volto.
     Contra il soffio di Borea horrendo, e duro
     Peloro il guardo horribil tien rivolto.
     Et assicuran di Sicania il regno
     Dal mar, dal vento, e dal nemico sdegno.

Qui ne l’arena Sicula Zanclea
     Diè fondo il buon nocchiero afflitto, e stanco,
     Et à l’orecchie fe passar d’Enea
     Di Cariddi il furor dal lato manco.
     Freme dal destro Scilla iniqua, e rea,
     Vergine il volto, e cagna il ventre, e ’l fianco.
     Fu già vergine tutta, e fu divisa
     In cagna, et in donzella in questa guisa.

Fu ne la prima età si vaga, e bella
     Che d’infiniti giovani, à cui piacque,
     Chi per amante, e chi per moglie havella
     Cercò, ma d’alcun mai non si compiacque.
     E come vana, e semplice donzella
     A le Ninfe se ’n gia de le salse acque;
     E lor contava le parole, e i pianti
     De gli scherniti suoi sposi, et amanti.

Fra tante di Nereo figlie, e di Dori,
     A cui solea la tanto amata Scilla
     Contar gli altrui mal collocati amori
     Di quei, ch’accesi havea la sua pupilla;
     Un giorno à Galathea, che in grembo à fiori
     S’ornava, il biondo crin piacque d’udilla.
     E poi ch’ella finì, con mesto accento
     Fe sentir Galathea questo lamento.