Ma le misere mie figlie son quelle,
Che m’irrigan di pianto il volto, e ’l seno:
Ch’oltre che fur si gratiose, e belle
Quant’altre uscisser mai del nostro seno,
Carissime l’havea per lo don, ch’elle
Hebber dal dolce alunno di Sileno.
Hebber da Bacco un don si singulare,
Che sopra ogni altro ben me le fe care.
La gratia, che lor diè lo Dio Thebano,
Mi fe in un punto stupido, e contento.
Fe, che ciò, che la lor toccava mano,
A un tratto olio venia, vino, ò frumento.
Se l’arena volean far venir grano,
Trasformar la vedeano in un momento.
E co ’l largo favor del Theban Nume,
Fean divenir hor olio, hor vino il fiume.
Toccavan l’herba, il legno, il sasso, e tutto
Quel ben, ch’à noi l’alma natura feo;
E subito prendea forma del frutto
Di Cerere, ò di Palla, ò di Lieo.
Colui, che ’l vostro imperio have distrutto,
L’altero Imperador del campo Acheo,
Per nutrire il suo campo si consiglia,
D’haver subito in mano ogni mia figlia.
Ne ti pensar, che fosse più sicuro
Lo stato mio da lo Spartano sdegno,
Di quel, che si sia stato il Frigio muro,
Anzi drizzò ver me l’irato legno;
E inessorabil, pertinace, e duro
Le meste figlie mie tolse al mio regno;
Perche tenesser co ’l favor di Bacco
Provista al campo ogn’hor la botte, e ’l sacco.
Pur sepper tanto far, che via fuggiro,
E per diverse vie lasciaro il campo:
E sopra d’Eubea due ne sortiro,
L’altre appresso al fratel cercar lo scampo.
Ma gli sdegnati Achei, che le seguiro,
Tosto smontar sopra l’Euboico campo,
E minacciar di dare à sacco, e à foco,
(Se non rendean le vergine) quel loco.
Sopra Andro (havute lor) s’andaro à porre,
Dove tenea il mio figlio il regio scanno.
Quivi non era Enea, ne ’l forte Hettorre
Da trattenergli insino al decim’anno.
Tanto, che ’l miser mio figliuol per torre
Al debil regno il minacciato danno,
De le sorelle sue rimase privo
Per darle preda, e serve al campo Argivo.
Già proveduto haveano i Greci accorti
I lacci, le catene, e le maniglie,
Perche i lor nodi più tenaci, e forti
Fesser più fida guardia à le mie figlie:
Quando elle alzando gli occhi afflitti, e smorti,
Per non servir l’Argoliche famiglie,
Pregar lo Dio, che lor diè tal virtute,
Che le togliesse à tanta servitute.
Lo Dio, da cui tal dono haveano havuto,
Non mancò lor d’aiuto, e di soccorso.
Se si chiama però porgere aiuto
Il torre à lor l’interior discorso.
Subito ogni lor corpo fu veduto
Fuggir per l’aria à più libero corso;
Volar per l’aria, e non saprei dir come
Cangiasser cosi tosto il volto, e ’l nome.
Ne’ bianchi augelli de la tua consorte,
In candide colombe si cangiaro,
E di si rara aventurosa sorte
L’ingrato mondo, e me privo lasciaro.
I lumi già de la celeste corte,
Che primi in oriente si mostraro,
A perder gian verso l’occaso il lume,
Onde andar tutti à ritrovar le piume.
Enea tosto, che ’l Sol nel mondo luce,
Se ’n và co ’l picciol figlio, e ’l debil padre
A consigliar con la diurna luce
Dove dovea condur le Frigie squadre.
Risponde à lor del giorno il chiaro Duce,
A la nostra tornate antica madre:
Perche quella provincia è, che v’attende,
Onde la vostra origine dipende.