Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/465


terzodecimo. 227

Ó solo essempio, ò non credibil mostro,
     Hor quando mai tal crudeltà si vide?
     Incrudelisce contra al sangue nostro
     Insino à l’arsa polve di Pelide.
     Apre la tomba istessa il tetro chiostro,
     E manda fuor, chi n’odia, e chi n’uccide.
     Dunque mi fece il ciel feconda tanto
     Per trionfo d’Achille, e per mio pianto?

Il superbo Ilion distrutto, et arso
     De le ruine sue copre le strade.
     Giace l’alta città. Quel sangue han sparso,
     Che di spargere ardean l’Argive spade.
     Dopo tanti flagelli al cielo è parso
     Di finir per ogn’un l’ultima clade.
     Sol nel suo corso il mio fato si vede,
     Per me l’arsa mia patria è anchora in piede.

Come s’io fossi in Troia invitta, e forte,
     Cerca la spada Achea di farmi oltraggio.
     Oime, di quale invitta, e altera sorte
     In qual miseria, in qual bassezza io caggio?
     Io d’uno Imperador fui già consorte,
     Il qual trahea da tutta l’Asia homaggio;
     Ne haver potea dal ciel maggior favore
     Ne generi, ne’ figli, e ne le nuore:

Et hor distrutta la mia regia antica,
     De sepolcri di quei, c’ho ne l’inferno,
     Son tratta vecchia, misera, e mendica
     Per lo paese incognito, et esterno;
     Dove me ’n vò con pena, e con fatica
     Senza soccorso alcun, senza governo
     Per esser serva, e don prima, ch’io mora
     De l’Itaco Laerte, e de la nora.

Serva de la consorte andrò d’Ulisse:
     E mentre ch’io farò stame del lino,
     Questa è colei, che si felice visse,
     A le madri dirà del suo domino
     Pria, che l’alma città Frigia venisse
     A l’ultimo rigor del suo destino.
     Questa è d’Hettor la già beata madre,
     Moglie del Re de l’Asiane squadre.

E tu, che davi refrigerio alquanto
     A gli aspri miei tormenti, et infelici,
     De l’anima hai privato il carnal manto
     Per l’ombre micidiali, e peccatrici.
     Oime, che ’l rito funerale, e santo
     Ho parturito à miei crudi nemici.
     Oime, ch’io son di ferro, e fe può farne,
     Che non può soffrir tanto un cor di carne.

Ond’è fato crudel, che vai si tardo
     A darmi con la morte eterna pace?
     Ond’è, che ’l corpo mio fai si gagliardo?
     Che la vecchiezza mia fai si vivace?
     A novo colpo ò di spada, ò di dardo
     Forse la luce mia serbar ti piace?
     Ben può il marito mio dirsi beato,
     Che innanzi à tanto mal finì il suo fato.

Hor chi direbbe mai, che ’l mio consorte
     Dopo haver visto il suo regno perduto,
     Felice dir la sua potesse morte?
     E pur passò felicemente à Pluto,
     Dapoi che ’l fin de la tua cruda sorte,
     Figlia infelice mia, non ha veduto.
     Atto non vide in te figlia si indegno,
     E in un punto perdè la vita, e ’l regno.

Forse, c’havrai come fanciulla regia
     Co ’l rito funeral gli estremi honori?
     E sarai posta in quella tomba egregia,
     Ch’asconde tanti illustri tuoi maggiori?
     Misera, il sangue tuo qui non si pregia,
     Sian dunque le tue essequie i miei dolori.
     L’esterna arena havrai per monimento,
     La pompa funeral fia il mio lamento.

Veduto ho il mio marito, e tutti i figli
     A Stige andar per la medesma strada,
     Del sangue proprio lor tutti vermigli,
     Percossi da la lancia, ò da la spada.
     Chi fia, che più m’aiuti, ò mi consigli,
     Per far, che in questo punto anch’io non cada?
     Si che un mio sol figliuol, che vive anchora,
     Possa alquanto veder prima, ch’io mora?