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libro

Ah de la madre mia pietà vi mova,
     Lasciate, che di me cura si pigli.
     Si che su ’l corpo mio quel pianto piova,
     Che sparse sopra gli altri uccisi figli.
     Tanta con questo dir pietà ritrova,
     Che sforza à lagrimar gli Argivi cigli;
     E se ben ella al pianto il fren ritira,
     No ’l può frenar chi l’ode, e chi la mira.

Il Sacerdote anchor contra sua voglia
     Per torle al primo l’anima, e ’l dolore,
     Quando co ’l ferro apre l’humana spoglia,
     Cercò di ritrovarle al primo il core.
     Ne potè tanto in lei l’estrema doglia,
     Che non si ricordasse de l’honore.
     Ma nel cader tal cura al manto pose,
     Che non venne à scoprir le parti ascose.

I più honorati Frigij con gran pianto
     Huomini, e donne officiosi vanno,
     E quel sopra il suo corpo officio santo
     Fan, che permette il loco dove stanno.
     E vanno insieme ricordando intanto
     De la stirpe regal l’estremo danno;
     E ’l superbo Ilion distrutto, et arso,
     E quanto sangue una sol casa ha sparso.

Ne piangon sol te vergine innocente,
     Ma te scontenta, e miserabil madre,
     Di quel già moglie imperador possente,
     Che comandava à l’Asiane squadre.
     Regina già del lucido oriente,
     Et hor fra mille man rapaci, e ladre
     Povera, vecchia, e di miseria piena
     Sei tal, che chi ti voglia, trovi à pena.

Ulisse, ò sia, che poter dir vorrebbe,
     Ch’in dominio la madre hebbe d’Hettorre;
     Ó sia, che del tuo mal forse gl’increbbe,
     Fra gli altri servi suoi ti fe già porre;
     E forse volontier ti donerebbe,
     Se fosse alcun, che ti volesse torre.
     Oh miseria del mondo iniqua, e nova,
     Signor d’Hettor la madre, à pena trova.

L’affliitta madre tramortita giacque,
     E come in se rivenne alzando il grido,
     Fe si col capitan, che le compiacque
     Di lasciarla con tre smontar su ’l lido:
     E giunse, e vide lei, che di se nacque,
     In quel, che mandò fuor l’ultimo strido,
     A punto in quel, ch’aperse il ferro crudo
     A l’intrepida figlia il petto ignudo.

Abbraccia il corpo, che senz’alma vede,
     Et à gli alti lamenti apre le porte;
     Et à lei dà quel pianto, che già diede
     A l’arsa patria, à figli, et al consorte.
     Bacia le smorte labbia, e ’l petto fiede,
     Straccia il canuto crin, chiama la morte;
     E fra infinite strida, onde si dole,
     Vi fa sentir anchor queste parole.

Ó del mio gran dolore ultimo obbietto,
     Dunque ancho il corpo tuo senz’alma giace?
     Dunque anchor tu piagato hai figlia il petto?
     Dunque il ferro anchor te ferisce, e sface?
     Ben mi credea, che ’l feminile aspetto
     Dovesse ritrovar dal ferro pace;
     Pur se ben di donzella io ti diè il volto,
     Il ferro ancho al tuo cor lo spirto ha tolto.

Lo stesso, che pur pria mandò per terra
     Tanti fratelli tuoi privi di vita,
     Ha voluto anchor te mandar sotterra,
     Se ben donzella sei, con la ferita.
     Achille il foco de la nostra terra
     Ne sforza tutti à l’ultima partita.
     Ogn’un del sangue regio ei vuol, che cada
     Per mezzo de la sua troppo empia spada.

Quando il mio Pari, e ’l gran signor di Delo
     Del gran Pelide orbar fe le pupille,
     E fer cader senz’alma il mortal velo
     Del distruttor de l’Asiane ville,
     Di core io rendei gratie al Re del cielo,
     Che non havea più da temer d’Achille.
     Ma in vano (ahi lassa) gratie gli rendei,
     Che cosi morto uccide i figli miei.