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terzodecimo. 226

Dunque n’andate al bel regno natio
     (Poi disse) ingrati Achei con tanta gloria
     Havendo in tutto me posto in oblio,
     Che v’ho fatto ottenner tanta vittoria?
     Non ve n’andate, ch’al sepolcro mio
     Non si faccia di me nova memoria.
     Plachi la tomba mia con nuovo pregio
     Di Polissena il sangue illustre, e regio.

Come hebbe cosi detto il cavaliero,
     Se ne tornò nel sotterraneo speco;
     E lasciò il Re del Greco illustre impero
     Attonito, et ogn’un, ch’era allhor seco.
     Il Re discopre à quello il suo pensiero,
     Che suol dar forma al sacrificio Greco,
     Vanno i ministri, e la figlia infelice
     Togliono à la dolente genitrice.

Piangea la sua fortuna acerba, e rea
     Senza il regio splendor inconta, e scinta
     La madre, ch’altra figlia non havea,
     E ’n grembo la tenea nel collo avinta.
     Intanto ne l’Argiva empia galea
     La turba entrò di crudeltà dipinta;
     E le bellezze angeliche, e leggiadre
     Tolse per forza à l’infelice madre.

L’addolorata madre, che rapita
     Vede la sola figlia, che le resta,
     Come l’honore à perdere, ò la vita
     Habbia de’ bianchi crin priva la testa,
     Languida cade, afflitta, e sbigottita.
     La figlia intanto à l’ara empia funesta
     Da servi già pietosi era condutta,
     Che tal beltà dovesse esser distrutta.

L’infelice fanciulla ardita, e forte,
     Come fanciulla nò, ma più che donna,
     Ben ch’à la tomba, al foco, et à la sorte
     De la funebre del ministro gonna
     La forma de la sua conosca morte:
     Non per questo il timor di lei s’indonna;
     Ma stando intanto Pirro à rimirarla,
     In lui ferma lo sguardo, e cosi parla.

Tu, che si fiso in me le luci intendi,
     Vago del sangue illustre, e generoso;
     Deh questa gola, ò questo petto offendi,
     Che ’l sangue regio v’è di Frigia ascoso.
     Deh il ferro, che cint’hai, ne le man prendi,
     E dammi al regno oscuro, e doloroso.
     E con questa favella il seno aperse,
     E lieta il petto, e ’l collo al Greco offerse.

Deh non restar, che di tua mano io muoia
     Per rispetto di quel, che mi vuol serva,
     Che la prole real del Re di Troia
     Prima morrà, ch’altrui s’inchini, ò serva.
     Ne men restar di tormi à tanta noia,
     Per chi forse à l’altar santo mi serva.
     Ch’un corpo doloroso, e pien di rabbia
     Hostia non vi può dar, ch’a giovar v’habbia.

Gioia à me dà quest’ultimo tormento,
     Sia chi si sia, che me venga à ferire:
     Ma sminuisce molto il mio contento
     La morte, che in mia madre, e per seguire.
     Ma, se ben vi discorro, io mi lamento
     A torto, ch’ella meco habbia à morire.
     Anzi à doler m’havrei de la sua vita,
     Restando serva inferma, e senza aita.

Voi, che di questa afflitta, e misera alma
     Privar volete il mio sembiante humano,
     Da la terrena mia vergine salma
     Tenete pur lontan la viril mano.
     Faccia pria danno il ferro, che la palma
     Vergogna al sangue vergine Troiano.
     Ch’à quel sarò ne la tartarea sede
     Più grata, sia chi vuol, c’hostia mi chiede.

Deh se pietà da voi puote impetrare
     La figlia d’un, che l’Asia hebbe in governo,
     Benche cattiva sia, come passare
     Vedete l’alma sua verso l’inferno,
     Non fate, che con l’or m’habbia à comprare
     L’affetto miserabile materno.
     Il grido, e ’l pianto suo vaglia per l’oro,
     Quando potè, vi spese anche il thesoro.