Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/460

Fra nemici n’andai senza paura,
     Mentre ha più bel l’altro hemisperio il giorno.
     Ne solo entrai dentro à le prime mura,
     Ma ne la rocca, ù fea Palla soggiorno.
     Per tutto far mi fei la via sicura,
     E riportai la Dea meco al ritorno.
     Et osa Aiace (e non ha alcun rossore)
     Di pareggiare il suo co’l mio valore ?

Havria fatte tant’ opre Aiace in vano,
     S’io non interrompea la fatal sorte.
     Io vinsi quella notte il Re Troiano,
     Che tolsi Palla à le Troiane porte.
     Io vi diè Troia, e tutto il regno in mano,
     Quando portai ne la Spartana corte
     Quel Nume venerabile, e divino,
     Che dava aiuto al Dardano domino.

Non mormorar, non m’accennar co’l ciglio,
     Non mi mostrare Aiace il mio Tidide.
     Ch’egli diè solo aiuto al mio consiglio,
     E la mia gloria seco si divide.
     Ne men tu sol contra il Troian periglio
     Difendesti l’armata al grande Atride.
     Fui con un sol d’entrare in Troia ardito,
     Ma tu con mille difendesti il lito.

E se s’havesse à dar quel don fatale
     Al valor de la man, non de la mente,
     Più d’un conosco in questo tribunale,
     Ch’è nel pugnar di te non meno ardente.
     Tidide à par di te pugnando vale,
     E senza dubbio è più di te prudente.
     Pur per la sua modestia il don non chiede,
     E per sua gratia à miei consigli cede.

Non è però di te men forte, e fero
     L’altro Aiace, che v’è più accorto, e saggio:
     Pur sà, che l’eccellenza del pensiero
     Val più de la possanza, e del coraggio.
     E come moderato cavaliero
     Fugge di fare al mio merito oltraggio.
     Toante, e Idomeneo non ho contrari,
     E pur di forza, e ardir van teco al pari.

E Merione, Euripilo, e ’l fratello,
     Ch’importa più del nostro imperadore,
     Son pari à te nel martial flagello,
     Et han più chiaro il lume interiore.
     Ne però quello acciar fregiato, e bello
     Cercan, che sia donato al lor valore.
     Bench’abondin d’ardire, e d’intelletto
     Han per lor gratia al mio merto rispetto.

Util nel ver tu sei per esseguire,
     Per darti pronto al martial periglio:
     Ma ben convien, che ’l tuo soverchio ardire
     Guidato sia dal fren del mio consiglio:
     S’altri dè comandare, altri obedire,
     Spesso esseguisci tu quel, ch’io consiglio.
     Che vuol l’imperador del campo Greco,
     Che di quel, che s’ha à far, discorra io seco.

La forza adopri tu senza ragione,
     E sei piuttosto ardito, che prudente:
     Io pria discorro in su l’occasione,
     E poi vengo à l’oprar più cautamente:
     Di forza, e ardir stò teco al paragone,
     Ma ben t’avanzo assai d’arte, e di mente.
     Tutta la forza mia stà dentro à l’alma,
     E fo più co’l pensier, che con la palma.

Quanto il Rettor de lo spalmato legno
     È maggior di colui, che ’l remo adopra;
     Quanto è l’Imperador più illustre, e degno
     Di quei guerrier, che pone à tempo in opra;
     Tanto io per lo suo pigro, e rozzo ingegno
     Al fortissimo Aiace avanzo sopra.
     Ne mi vò stender più per farne fede,
     Che senza altro parlar chiaro si vede.

Hor voi principi invitti, à cui dal fato
     Si deve in breve dar tanta vittoria,
     Per quel Nume fatal, ch’io v’ho acquistato,
     Ch’ à voi dà Troia vinta, à me dà gloria,
     Non fate, ch’ io, c’ ho per voi tanto oprato,
     Fuor de la vostra sia grata memoria.
     Sapete pur quanta propinqua gioia
     Nel simulacro stà, ch’io tolsi à Troia.