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terzodecimo. 224

Se la sua stolta lingua il modo eccede
     Ne le false calunnie, che m’ha date;
     Dapoi, ch’oltraggia voi, cui l’arme chiede,
     Del suo folle parlar giudicio fate.
     Io sono Ulisse, e accuso Palamede,
     Voi sete il tribunal, che ’l condannate.
     Dunque se l’accuso io, fia scritto à frode:
     Se ’l condannate voi, fia scritto à lode?

Ne scusar Palamede hebbe ardimento
     Tal causa innanzi al vostro concistoro,
     Ne voi sentiste sol tal tradimento,
     Ma vedeste evidente il pregio, e l’oro.
     Aiace è tanto à farmi ingiuria intento
     Per acquistar si raro, e bel thesoro,
     Ch’osa per suo vantaggio, e per mio male
     Chiamare ingiusto un tanto tribunale.

E s’è restato il miser Filottete
     Ne l’isola ferito di Vulcano,
     Non accusi egli me, voi difendete
     Il vostro error, che fu via più inhumano.
     Voi ve ’l lasciaste già, voi ve ’l tenete,
     Per voi non scorge il bel regno Troiano.
     È ver, ch’io fui, ch’à voi diedi consiglio,
     Ch’à lasciarlo era ben per men periglio.

Mi parve di levarlo à la fatica
     De la noiosa guerra, e del viaggio,
     Però c’havendo la quiete amica,
     Non gli potea far tanto il male oltraggio.
     Vi stette, e vive, hor chi sarà, che dica,
     Che non fu il mio parer fedele, e saggio?
     Poi ch’anchor vive, il fatto istesso dice,
     Che fu il consiglio mio fido, e felice.

Hor poi ch’à prender Ie Troiane mura
     Richiede il fato il figlio di Peante,
     Non date à me di racquistarlo cura,
     Fate, ch’Aiace à lui si porga avante.
     Che gli torrà la doglia acerba, e dura,
     S’anchor si duol de le ferite piante.
     E poi con qualche astuto suo conforto
     Ve ’l condurrà placato al Frigio porto.

Prima nel bosco il cerro, il faggio, e ’l pino
     Vivrà senza radice, e senza scorza;
     Tornerà prima verso il monte Alpino
     Il fiume contra il peso, che lo sforza,
     Che giovi Aiace à l’Attico domino
     Con altra cosa mai, che con la forza.
     Noi darem prima aiuto al Frigio regno,
     Che l’arte in lui giamai vaglia, ò l’ingegno.

Se ben, tu Filottete, da la rabbia
     Vinto di quel velen troppo importuno,
     Non sol contra d’Ulisse apri le labbia,
     Ma contra il Signor nostro, e contra ogn’uno:
     Se ben non vuoi, ch’ivi lasciato io t’habbia,
     Perche più fosse al tuo scampo opportuno,
     Se bene ogni supplicio infame, e rio
     Mi preghi, e brami berti il sangue mio:

Non però resterò per benefitio
     Del campo illustre Acheo di ritrovarti,
     Ne mancherò d’ogni opportuno offitio,
     Per condurti placato in queste parti.
     E cosi in questo il ciel mi sia propitio,
     Com’io tengo si certo di placarti,
     Come fu ver, ch’ogni disegno intesi
     Di Troia, quando il suo profeta io presi.

Cosi d’haver quell’arco io son sicuro,
     Che dee tanta cittade à noi far serva,
     Si come è ver, ch’entro al suo proprio muro
     Io tolsi il simulacro di Minerva.
     L’Oracol, che predir suole il futuro,
     Disse à colui, che i nostri augurij osserva.
     Troia perder non può la regia sede
     Se nel tempio Troian Palla risiede.

Dov’è quel forte, e quel tremendo Aiace?
     Dov’è quel tanto suo sicuro petto?
     Perche nel letto suo la notte giace
     Dentro à ripari, e senza alcun sospetto?
     Ond’è, ch’ei teme? ond’è, ch’Ulisse è audace?
     E fa di notte un si importante effetto?
     Và per mezzo à nemici entro à la terra,
     E toglie Palla al tempio, che la serra.