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Hor voi prudenti Heroi giudicio fate,
     Chi deve ne la gloria haver più parte,
     Ó quel che nelle fiere empie giornate
     S’oppone invitto al periglioso Marte;
     Ó quel, che con parole alte, et ornate
     Quel, che s’havrebbe à far, dice in disparte.
     Restava ogni navilio arso, e disperso,
     Se ’l difendeva anch’ io co’l parlar terso.

E poi, ch’ei per le sue mirande prove
     L’arme del forte Achille havere intende,
     Fate, ch’egli vi conte, e quando, e dove,
     Poi ch’ei di notte ascoso ogn’hor contende.
     So ben, che l’opre mie non vi son nove,
     Che le fo mentre il sol nel ciel risplende.
     E di ciò, ch’ io mai fei per vostro scampo,
     Mi fu ogn’hor testimonio tutto il campo.

Non me d’huopo narrarvi, e farvi aperte
     Quell’opre, che i vostri occhi hanno vedute.
     Conti Ulisse le sue, che son men certe,
     Poi che le fa di notte ascose, e mute.
     La notte farà fè, se l’arme ei merte,
     À cui fatto hà veder la sua virtute.
     Ma s’io più di lui merti andarne adorno,
     Me ’n sarà testimonio il mondo, e ’l giorno.

Confesso ben, che ’l premio è grande, ch’ io
     Bramo, ch’al merto mio da voi si renda:
     Ma mi par, che dia macchia à l’honor mio,
     Ch’Ulisse anchor lo stesso premio attenda.
     Locato ho bassamente il mio desio,
     S’è ver, ch’ei con ragione à questo intenda.
     E se ben premio io senza pare il tegno,
     E poco à me, s’Ulisse è di lui degno.

Che gloria haver bramato esser mi puote
     Quel dono à me, se bene immenso parmi,
     C’ha bramato un, che sol con finte note
     Contende, ov’io soglio pugnar con l’armi?
     Ma bene il premio, ch’ei desia, riscuote,
     Anchor ch’io vinca, e di quel ferro m’armi;
     Si vanterà, ch’ei sol nel campo Greco
     Nel premio, e nel valor concorse meco.

Quando à voi fosse dubbio il mio valore,
     Se quel, che voi co’ proprij occhi vedeste,
     Posto haveste in oblio, per lo splendore
     Del sangue mio quell’arme à dar m’havreste:
     Quel Telamon di cosi invitto core
     Mi diè già l’alma, e la terrena veste,
     Co’l cui favor già Troia Alcide prese,
     E con la nave Argiva in Colco scese.

Di quel fier Telamone io sono herede,
     Da cui fu vinto già Laomedonte.
     Ei d’Eaco uscì, che giudice risiede
     Nel formidabil regno d’Acheronte.
     Eaco dal Re, c’ha in ciel la maggior sede,
     Trasse il sembiante de l’humana fronte:
     Et io (se ’l Re de l’universa mole
     Non mente) hor son da lui la terza prole.

Non vò però, che ’l mio splendor natio
     Alcuna in questo affar mi dia ragione,
     Se quei non scende dal medesmo Dio,
     Che prima di quell’arme andò padrone.
     Nacque del sangue Achille, onde nacqui io,
     Ei di Peleo, et io di Telamone.
     E quel forte Peleo, che ’l diede al mondo,
     Fu del grand’avo mio figliuol secondo.

S’à Telamon Peleo nacque germano
     Del figlio del Rettore alto, e divino;
     Se l’arme vi chied’io, che fe Vulcano,
     L’heredità desio del mio cugino.
     Ma se ’l sangue Sisifio empio, e profano
     Scorse Ulisse al mortale aspro camino:
     E bene à furti, et à gl’ inganni il mostra,
     Che s’ hà à mischiar con la progenie nostra:

À me dunque quell’arme han da negarsi,
     E s’ hanno al mio aversario à dar più tosto,
     Perch’ io fra l’arme Achee prima comparsi,
     Per obedire à voi pronto, e disposto ?
     Vi par forse, c’hor primo habbia ad armarsi
     Ei, che per non s’armar si stè nascosto?
     Lui dunque di quel don farete degno,
     Che per non seguir voi mentì l’ingegno?