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Mentre una volta al ciel batte le penne,
     Per scender poi più rapido à ferire,
     Hercol sempre incoccato il dardo tenne,
     Fin che ’l vide finito di salire:
     Ma tosto, che ver terra se ne venne,
     Lo stral con gran superbia al ciel fe gire.
     Scontra il telo l’augello, e à punto il punge
     Dove l’ascella al dosso si congiunge.

La piaga de l’augel non fu mortale,
     Ma ne restò talmente il nervo offeso,
     Che del moto, e del vol mancando l’ale,
     Non si potè tener nel ciel sospeso,
     Talche vincendo il moto naturale,
     Lasciò cadere il suo terrestre peso,
     E nel cadere il misero dal cielo,
     Mortale un’altro colpo hebbe dal telo.

L’augel piagato al mal soccorrer volse,
     Et afferrar co ’l rostro il crudo dardo,
     Hor mentre à quella parte egli rivolse,
     Per imboccar lo strale, il collo, e ’l guardo:
     La cocca de la freccia in terra colse,
     E spinse il ferro in sù crudo, e gagliardo,
     Passò la punta à l’infelice il collo,
     E gli fè in terra dar l’ultimo crollo.

Hor lascio à te medesmo far giudicio,
     Se come già dicesti, tanto errai,
     Se contra ogni dover mancai d’officio,
     Quando le lodi d’Hercole io lasciai.
     Che s’al mio sangue tal fe pregiudicio,
     Vorrei di lui non ricordarmi mai.
     Ne creder, che tant’odio il cor m’accenda,
     Che la vendetta mia più là si stenda.

Vendica il sangue suo spento Nestorre
     Sol co ’l non far le lodi Herculee note.
     Ama te come figlio, e, se t’occorre,
     Promettiti di lui ciò, ch’egli puote.
     Qui volle il vecchio accorto il punto porre
     A le sue grate, e ben disposte note,
     E poiche ’l vin sezzaio venne, e ’l confetto,
     Rinovate le guardie, andar nel letto.

Si duole intanto il doloroso padre
     Di Cigno, ch’un figliuol si forte, e bello
     Habbia le membra sue forti, e leggiadre
     In un timido, e vil cangiato augello.
     Vedendo poi, ch’à le Troiane squadre
     Danno Achille ogni dì porta novello,
     Diventa ogn’hor più crudo, e più maligno
     Contra chi gli fè far di Cigno un Cigno.

Ma pure à la vendetta egli non viene,
     Ne vuol su lui mandar l’ultimo danno.
     E quando del valor suo gli soviene,
     Tempra, più ch’egli può l’interno affanno.
     Vedendo il crudo poi modo, che tiene
     Sopra l’ucciso Hettorre il decimo anno,
     Per colui vendicar pone ogni cura,
     Che difendea le sue superbe mura.

Subito trova il gran Rettor del giorno,
     E dice. Ó de la luce unico Dio,
     Ó d’ogni altro figliuol più bello, e adorno,
     Di Giove, e più gradito entro al cor mio,
     Oime, che teme haver l’ultimo scorno
     Quel muro, che già tu facesti, et io;
     Oime, che tosto vuol l’Argiva guerra
     Le tue fatiche, e mie mandar per terra.

Perche tanto t’affliggi, e ti tormenti,
     C’habbia à cader de l’Asia il grande impero?
     Perche più piangi tanti huomini spenti,
     Onde fu il popol tuo già tanto altero?
     Ond’è, che muovi i dolorosi accenti,
     Per quel tanto famoso cavaliero?
     Per quello Hettorre, à cui fu tanto torto
     Fatto intorno al tuo muro essendo morto?

Perche lasci spirar quel gran Pelide,
     C’ha la nostra città del tutto oppressa?
     Quel crudel’huom, che tanta gente uccide,
     Che non n’uccide più la guerra istessa?
     Deh trova Apollo homai l’arme tue fide,
     Con l’arco invitto tuo ver lui t’appressa,
     E con lo stral più certo, e più sicuro
     Distruggi il distruttor del nostro muro.